Il 19 aprile il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) ha votato l’elezione di un rappresentante dell’Arabia Saudita per la Commissione sullo status delle donne (UNCSW), l’organo internazionale che si occupa della “promozione della parità di genere e dell’emancipazione delle donne”. La notizia ha scatenato le critiche di numerose organizzazioni non governative.
cIl 19 aprile il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (ECOSOC) ha votato l’elezione di un rappresentante dell’Arabia Saudita per la Commissione sullo status delle donne (UNCSW), l’organo internazionale che si occupa della “promozione della parità di genere e dell’emancipazione delle donne”. La notizia ha scatenato le critiche di numerose organizzazioni non governative.
Secondo al-Bab.com, 47 dei 54 stati facenti parte del Consiglio hanno votato per l’elezione dell’Arabia Saudita, di questi almeno 5 stati europei. I 45 membri dell’UNCSW, il cui mandato dura quattro anni, partecipano alle sedute annuali della Commissione. Ogni sessione della durata di due settimane ruota intorno a temi specifici, che vengono discussi dagli stati membri insieme ai rappresentanti di alcune ONG e ad altre figure legate alle Nazioni Unite. Lo scopo della riunione, oltre a discutere dei progressi e dei problemi legati all’emancipazione femminile, è di individuare una serie di linee guida ed azioni immediate da sottoporre all’ECOSOC.
L’elezione di un paese come l’Arabia Saudita, al 141esimo posto su 144 per la disparità di genere secondo il Global Gender Gap Report del 2016, ha scatenato le critiche di diverse ONG come UN Watch, che da anni denuncia l’inclusione dell’Arabia Saudita nel Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite e si scaglia contro il sistema della custodia maschile.
La segregazione di genere e la custodia maschile sono i fondamenti del sistema vigente nel Regno dell’Arabia Saudita.
Un complesso di leggi statali, precetti religiosi e consuetudini familiari prevede la figura di un tutore di sesso maschile — normalmente il padre e poi il marito, ma spesso anche un fratello o addirittura un figlio — che supervisioni ogni aspetto della vita delle donne saudite. Queste ultime, il cui status legale è pari a quello di un minore, hanno bisogno dell’approvazione del tutore per ogni aspetto della propria vita, da quello economico (studio, lavoro, finanze) a quello sociale (viaggi, matrimoni, cure mediche, rappresentanza giuridica).
Ma la monarchia saudita costituisce un’eccezione più che la regola del mondo musulmano. Fin dalla sua nascita nel 1932 il Paese è guidato dal clan dei Saud, la cui potenza militare non sarebbe bastata a fondare uno Stato forte (l’Arabia Saudita è tra i pochi paesi arabi sfuggiti alla colonizzazione europea) se non fosse stata sostenuta dall’ideologia del wahhabismo.
Questa tendenza profondamente conservatrice e puritana del pensiero islamico, nata alla fine del XVIII secolo nella Penisola Arabica, è tradizionalmente impegnata nel rispetto letterale dei precetti coranici e nella conversione degli infedeli. Il wahhabismo nasce nel contesto di un mondo beduino ancora legato alle tradizioni pagane con l’obiettivo di praticare una re-islamizzazione delle tribù nomadi, in un’illusoria prosecuzione del disegno del Profeta Muhammad. Tuttavia è solo grazie alla politica dei sauditi che riesce ad affermarsi e a diffondersi, prima in Arabia Saudita e poi a livello globale.
La nascita di un clero fedele al wahhabismo e al monarca, la creazione di una polizia religiosa il cui compito è di applicare e far rispettare le leggi della shari’a presso la popolazione, la sedentarizzazione delle famiglie beduine e il loro inglobamento nelle alte sfere politiche del Paese (che rimangono organi consultivi, trattandosi di una monarchia assoluta) sono la testimonianza dello sforzo di riunire tutti i segmenti della società saudita attorno a un unico progetto politico-religioso.
Se a questo quadro si aggiungono le dinamiche economiche di un Paese che dal 1938 ha fondato tutte le sue entrate sullo sfruttamento del petrolio e le politiche matrimoniali della famiglia reale che hanno condotto alla nascita di un élite dirigente basata sui legami di sangue, appare evidente l’utilità del sistema di custodia maschile. In uno Stato fondato sul patrimonialismo, cioè uno Stato all’interno del quale il potere emana direttamente dal leader, l’unità familiare e lo stretto controllo sulle donne sono propedeutici al mantenimento dello status sociale ed economico della famiglia.
In Arabia Saudita la religione è soprattutto uno strumento politico e di controllo: la leadership all’interno di due grandi organizzazioni panislamiche globali (La Lega Mondiale Islamica e l’Organizzazione della conferenza islamica) ha permesso all’interpretazione più conservatrice e tradizionalista dell’Islam di conquistarsi uno spazio mondiale. Inoltre il supporto dell’Arabia Saudita a organizzazioni estremistiche che operano in tutto il mondo non ha mai scalfito la speciale relazione che fin dagli anni ’30 il Paese intrattiene con gli Stati Uniti e con il mondo occidentale.
Alla luce delle dinamiche internazionali, l’elezione del 19 aprile potrebbe essere interpretata come un mero voto politico e dunque un fallimento per i diritti delle donne. Tuttavia, rimane la speranza che le cose possano andare diversamente.
Recentemente in Arabia Saudita diverse riforme sono state presentate in nome di una maggiore libertà femminile: da una parte, tutta una serie di riforme volte a migliorare le possibilità di accesso delle donne al mondo nel lavoro (nell’ambito del progetto economico più ampio Saudi Vision 2030, con l’obiettivo di diminuire la dipendenza del paese dall’industria petrolifera), dal punto di vista politico, nel 2013 trenta donne sono entrate nel Majlis ash-Shura (il maggiore organo consultivo della monarchia saudita) e nel 2015 è stato concesso alle donne di candidarsi e votare nei consigli comunali (sebbene possano partecipare alle riunioni municipali solo via video link).
La portata limitata di queste riforme, che non sono sufficienti a modificare il sistema alla base, ha spinto l’anno scorso più di 15.000 donne a firmare una petizione per l’abolizione della custodia maschile. L’iniziativa, guidata dall’attivista Aziza al-Yousef, si è conclusa con la consegna della petizione a re Salman bin Abdulaziz al-Saud. Nonostante lo sdegno del Gran Muftì Abdulaziz al-Sheikh, che si è scagliato contro la richiesta, quest’ultima ha avuto un grande seguito su Twitter, lasciando dietro di sé una scia di ottimismo presso la popolazione femminile saudita impegnata già da anni in questa direzione.
Claudia Tatangelo
Questo articolo è falso perché la frase ISLAM è sostituita da ARABIA SAUDITA! Perché quando si parla dei diritti delle donne e di qualsiasi cosa si parli di loro si omette la parola ISLAM? E’ un falso ideologico? La gente non deve capire che ci sono quasi 3 miliardi di persone che i diritti delle donne se lo mette sotto i piedi ed il peggiore nemico della donna è l’ISLAM?