Caster Semenya è una delle più grandi sportive sudafricane di sempre nel mondo dell’atletica leggera, più volte campionessa olimpica e mondiale negli 800 metri, e il 1 maggio 2019 ha collezionato un altro record che sarà ricordato quanto meno al pari di quelli raggiunti sul piano agonistico, ma che, a differenza di questi ultimi, non sarà di certo motivo di celebrazione. L’atleta, infatti, è ufficialmente la prima a cui è stata proibita la partecipazione ad una gara per via dei suoi connotati fisiologici, a prescindere dal loro carattere squisitamente naturale.
Semenya è affetta da una patologia molto rara detta iperandrogenismo, per effetto della quale il suo corpo produce un livello di testosterone eccessivamente alto che si avvicina a quello prodotto dagli uomini (nel suo caso 10 nmol/l) . Ad opinione della Federazione Internazionale di Atletica Leggera (IAAF), il vantaggio conferito dalla alta produzione di ormoni maschili alle atlete che ne soffrono sarebbe tale da permettere alle stesse di poter gareggiare quasi senza rivali in discipline come la corsa. Tanto è profondo il desiderio della IAAF di preservare l’equità delle competizioni femminili che l’organizzazione si è spinta sino ad adottare un regolamento che impone alle atlete di mantenere il livello di testosterone sotto i 5 nmol/l per almeno un anno prima della competizione. Ciò che salta all’occhio immediatamente è la natura discriminatoria di tale disposizione, che finisce per equiparare la patologia, cosa ben diversa dalla produzione artificiale di ormoni maschili stimolata attraverso il ricorso a farmaci o prodotti specifici, ad una forma di esclusione dalla libera partecipazione alle competizioni sportive. Eppure, due giorni fa, il Tribunale Arbitrale Internazionale dello Sport (TAS), davanti al quale Semenya aveva impugnato il regolamento con il fine di ribadire la naturalezza del suo corpo e delle sue prestazioni ed il suo diritto ad essere se stessa e a partecipare alle gare al pari delle altre sportive, ha dato ragione alla Federazione, qualificando la disposizione, pur se discriminatoria, come necessaria, appropriata e proporzionata al raggiungimento dell’obiettivo cui è diretta.
Il caso Semenya va inserito in un discorso che va al di là dello Sport e che coinvolge i diritti umani, nel caso di specie bilanciati con l’interesse alla integrità ed alla validità delle competizioni sportive nell’ambito di un test di proporzionalità il cui esito può dirsi alquanto discutibile. In particolare, pur non volendosi sostituire all’organo arbitrale chiamato in causa, ciò che lascia perplessi è la linea di ragionamento seguita dal Tribunale Arbitrale per giustificare l’applicazione del regolamento della IAAF, soprattutto nella misura in cui non ha tenuto conto delle conseguenze derivanti dalla sua attuazione e, in particolare, della circostanza secondo la quale l’unica vera opzione che le atlete affette da iperandrogenismo hanno per ridurre il loro testosterone e continuare a gareggiare è ricorrere a farmaci che ne abbassino il livello di produzione: ed allora, come può dirsi necessaria ed appropriata, oltre che ragionevole, una disposizione che, in buona sostanza, impone ad un piccolo gruppo di atlete di imbottirsi di anticoncezionali con annessi rischi per la propria salute? Gli effetti collaterali provocati dal trattamento ormonale cui dovrebbero sottoporsi Semenya e tutte le altre atlete iperandrogene potrebbero, in effetti, compromettere la loro intera carriera di sportive, così come quella di donne. La mancanza dei caratteri di appropriatezza e necessità del regolamento della IAAF è ancor più evidente se si pensa che le improbabili alternative al trattamento ormonale per le donne con differenze nello sviluppo sessuale come Semenya sono rappresentate, da un lato, dal suo inserimento nella categoria degli uomini, in gare che avranno ben poco di competitivo fino ad assumere i caratteri di sistematiche umiliazioni, e, dall’altro, dall’abbandono di qualsiasi disciplina agonistica internazionale, che stroncherebbe la brillante carriera di un’atleta di soli 28 anni.
Né si può dire che la frammentata ed incompleta evidenza scientifica prodotta dagli avvocati della IAAF per sostenere la posizione della Federazione valga ad escludere qualsiasi opposizione relativa alla mancanza di proporzionalità della disposizione, considerando che, a detta dello stesso TAS, non vi è alcuna prova che la condizione di iperandrogenismo possa conferire vantaggi, oltre che nei 400 e negli 800, anche nelle gare dei 1500 metri. A tal riguardo, desta perplessità la già annunciata decisione della Federazione di applicare il regolamento a qualsiasi tipo di gara, al di là della distanza in metri, ignorando, di fatto, quanto sostenuto dallo stesso Tribunale e prescindendo da qualsiasi tipo di evidenza scientifica in merito.
In altre parole, la IAAF e il TAS hanno in questo modo creato una pericolosa e vergognosa differenziazione tra le donne “normali” e quelle che, in maniera assolutamente naturale, sottostanno ad un processo fisiologico particolare che le rende “meno normali delle altre”; inoltre, come se non bastasse, ha indirettamente imposto a queste ultime di ricorrere a trattamenti farmacologici per tornare ad essere considerate normali, quando, paradossalmente, ciò che da anni è proibito nel mondo dello sport è il ricorso a farmaci che alterino le prestazioni. E allora, a questo punto, sorge il dubbio: l’altezza di Yao Ming in una disciplina come il basket lo rendeva un uomo anormale? Le braccia di Micheal Phelps dovevano essere un motivo di esclusione dalle gare di nuoto? Le gambe di Usain Bolt fanno di lui uno sportivo che andrebbe inserito in un’altra categoria? La risposta è no. Lo stesso vale Semenya, le cui peculiarità fisiologiche, come quelle dei suoi colleghi maschili appena citati, pur in grado di incidere sulle sue prestazioni, non possono di certo essere motivo di esclusione dalle competizioni sportive né possono rappresentare la fonte di una qualsiasi tipo di responsabilità, non essendo stimolate da alcun agente esterno ma essendo il prodotto naturale di un particolare processo fisiologico.
Peraltro, le perplessità suscitate dalla sentenza sono ancora maggiori se si pensa alla mancanza di una corrispondente regola nell’ambito dello sport maschile, dove esistono atleti il cui livello di testosterone è notevolmente maggiore e superiore alla media degli altri colleghi, eppure, nessun tipo di controllo è effettuato per preservare “l’integrità e la validità” delle competizioni di genere maschile.
Quella di Semenya è una vicenda senza lieto fine che si è trascinata per anni. Anni durante i quali i suoi concorrenti hanno dubitato della regolarità delle sue prestazioni e nel corso dei quali si è arrivati più volte a mettere in dubbio la sua sessualità, con umilianti visite medico-ispettive, talmente invasive da far rabbrividire. La realtà è che Caster Semenya è una donna e lo è sempre stata, sin dal giorno della sua nascita. Ma, prima di tutto, è una sportiva talentuosa, con doti sconfinate nella corsa. Il suo unico vantaggio sta nel fatto di avere una predisposizione fisiologica particolare che le consente di sfruttare in maniera suprema le sue doti sportive, così come lo hanno fatto i vari Ming, Bolt, Phelps. Ed il fatto che qualcuno faccia del proprio corpo uno strumento eccellente da abbinare al talento naturale non può costituire motivo di discriminazione ed esclusione. Mai lo era stato finora, e si spera che non lo sia mai più in futuro, per il bene dello Sport.
Amedeo Polichetti
fonte immagine in evidenza: www.thenation.com