«Braccianti che dovevano obbedire, senza discutere. Uomini con le mani callose e sporche di terra, la schiena piegata per 10, 12 e a volte anche 14 ore al giorno per raccogliere pomodori, cocomeri, ravanelli o insalata. Il tutto per circa 20-30 euro al giorno».
Sembra un brano tratto da un libro di storia, magari americana, la descrizione di una schiavitù lontana e oggi rimossa. È invece un passo della ricerca condotta dal sociologo Marco Omizzolo, che ha passato 3 mesi fra le campagne dell’Agro Pontino.
Dietro la dicitura “caporalato” ce ne è un’altra ben più incombente: “schiavitù“.
E dietro quest’ultima c’è il brano di Omizzolo, e Paola Clemente che a 49 anni muore fra i vigneti delle campagne di Andria. Il caporalato uccide, e nella scorsa estate, complici storie come quella di Paola, tutti in Italia sembravano averlo capito.
«Piaga sociale che deve essere eradicata definitivamente», aveva chiosato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, e così il 19 agosto il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina annunciava l’istituzione della prima “certificazione etica del lavoro” in Italia, nasceva dunque a settembre la Rete del lavoro agricolo di qualità, alla quale possono aderire le imprese che ne fanno richiesta sul sito dell’Inps e che attestano il rispetto di alcuni requisiti etici nella loro filiera di produzione. Un’iniziativa lodevole, volta a evidenziare il made in Italy virtuoso. Un’iniziativa che però non può da sola risolvere il problema, proprio per il suo carattere facoltativo, e che da settembre a dicembre ha coinvolto solo 207 imprese tra le 200.000 potenzialmente interessate (una su mille).
Come ha fatto notare in una recente intervista Giorgio Mercuri, presidente di Fedagri-Confcooperative, la Rete non sarà effettivamente efficace finché non verranno stabiliti vincoli ai quali le grandi distribuzioni dovranno attenersi:
«Quando noi (si riferisce alla sua cooperativa, ndr) vendiamo a imprese del Nord Europa o della Svizzera, queste non ritirano il prodotto se non dimostriamo che lavoriamo in regola e sono disposte a pagarlo per questo un po’ di più. Per me, quindi, il bollino di qualità è un biglietto da visita sull’estero. Da noi, invece, la grande distribuzione da una parte ha inviato una circolare ai fornitori invitandoli ad iscriversi alla Rete ma dall’altra continua ad acquistare il prodotto fresco a chi offre di meno.»
Ma la suddetta rete non è stata l’unica iniziativa anti-caporalato partita nello scorso anno; il 13 novembre infatti è stato approvato un disegno di legge apposito, di ben altra consistenza rispetto alla certificazione facoltativa.
Un ddl accolto con entusiasmo da addetti ai lavori e sindacati, nonostante presenti più di una ambiguità soprattutto per quanto concerne la confisca di beni all’imprenditore che agisca illegalmente. Si legge nel fascicolo che:
«nel caso di condanna il giudice ordinerà sempre la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato (a titolo esemplificativo, i mezzi utilizzati per accompagnare i lavoratori sul luogo di lavoro, gli immobili destinati ad accoglierli per la notte) come pure delle cose che ne costituiscono il prodotto o il profitto»,
trattasi dunque innanzitutto di una confisca obbligatoria in caso di condanna, e non a discrezione del giudice (e questo è un bene), ma di una confisca che si potrebbe definire “selettiva”, o anche “timida”. La proprietà nella quale verrà perpetuato uno sfruttamento lavorativo documentato non verrà toccata, poichè la confisca riguarda solamente i mezzi con i quali il reato è stato commesso (e il legislatore ci ha tenuto a chiarirlo anche con esempi pratici). Come se a un ladro colto in flagrante venissero confiscate le cesoie con le quali sta operando il furto, oltre al “prodotto” del furto che però potrebbe non essere rintracciabile.
Un’eventualità ben presente nella mente del legislatore, che infatti chiarisce:
«Può accadere che, al momento della condanna e prima, al momento del sequestro finalizzato alla futura confisca, non si sia nelle condizioni di rintracciare lo specifico profitto o prodotto del reato, oppure le specifiche cose che sono servite alla sua commissione. Magari perché l’imputato le ha saputo bene occultare, o perché nel frattempo sono andate disperse, consumate e riutilizzate.»
Dunque i ricavi del lavoro nero e sottopagato potrebbero essere riutilizzati? Il legislatore non scopre niente di nuovo. In tal caso si dovrà procedere a un sequestro di valore “equivalente” al profitto criminoso. Ma dato che del profitto criminoso non si potrebbe sapere appunto nulla, tale “equivalenza” si suppone ben difficile da formulare.
L’approvazione del ddl è prevista per i prossimi mesi, e non dovrebbe essere ostacolata da particolari opposizioni, contiene comunque al suo interno qualche buona prescrizione, come l’arresto in flagranza di reato e un indennizzo da destinarsi ai lavoratori sfruttati.
Valerio Santori
@santo_santori