Mario Maffi parla di «desiderio di non-appartenenza», riferendosi al tentativo di Orwell di allontanarsi dalle proprie radici borghesi per esplorare i bassifondi. Questo tentativo di secessione dal proprio gruppo sociale lo avrebbe portato a vivere in povertà a Londra e Parigi (periodo descritto in “Senza un soldo a Parigi e a Londra”). In realtà, tutta la vita di Orwell è, in fondo, un susseguirsi di atti d’indipendenza. L’atto originario, quello da cui si sono propagati tutti gli altri, è stato quello di rinunciare alla propria posizione nella polizia inglese in Birmania per andare a vivere senza un soldo in Europa. Per pubblicare il libro “Down and Out in Paris and London”, Eric Arthur Blair ricorre ad un secondo atto di secessione, ovvero la scelta di quel nome che separa la sua carriera di scrittore dal cognome paterno, dalla famiglia, dallo studente dell’Eton College che lui stesso era stato pochi anni prima.
Il desiderio di rottura sarà quello che lo spingerà ad abbandonare l’Inghilterra per la Catalogna, negli anni Trenta. È un’altra fuga, un altro distaccarsi; come scrive Maffi: «La Spagna offrì l’opportunità di sfuggire al (sic) nada, al “nulla” d’un mondo che sembrava aver esaurito stimoli e grandi illusioni.».
Le illusioni dovevano essere un carburante necessario per Orwell, che sarebbe stato definito da Juan Negrin, esule a Londra e primo ministro spagnolo, con la parola tedesca “weltfremd”: ingenuo, fuori dal mondo. E di illusioni doveva essere ricca la Catalogna, dove Orwell era andato per combattere il fascismo e dove aveva creduto di trovare, almeno nei giorni appena successivi al suo arrivo, una sorta di paradiso anarco-socialista:
«Gli anarchici mantenevano ancora il virtuale controllo della Catalogna e la rivoluzione era ancora in pieno corso. Qualcuno che fosse stato lì sin dall’inizio forse avrebbe avuto l’impressione già a dicembre e a gennaio che il periodo rivoluzionario stesse finendo; ma se si era appena arrivati dall’Inghilterra bastava guardarsi attorno a Bacellona per essere sorpresi e soggiogati. Era la prima volta che mi trovavo in una città dove la classe operaia era saldamente in sella.»
In “Omaggio alla Catalogna”, il libro che avrebbe documentato questa esperienza, Orwell prosegue descrivendo la situazione:
«Ogni negozio e ogni caffè aveva un cartello che dichiarava che era stato colletivizzato, perfino i lustrascarpe e le loro scatole di lavoro dipinte di rosso e di nero. Camerieri e commessi ti guardavano negli occhi e ti trattavano da pari a pari. (…) Nessuno più diceva “Señor” o “Don” e neanche “Usted”; tutti si chiamavano “Compagni” e si davano del tu, si salutavano con “Salud!” invece che con “Buenos días”.»
Orwell, all’inizio della sua permanenza in Catalogna, era sinceramente convinto di trovarsi in uno stato operaio dal quale «tutta la borghesia fosse fuggita, eliminata o passata volontariamente dalla parte dei lavoratori». Purtroppo per lui, si sarebbe reso conto solo più tardi «che un gran numero di borghesi agiati si limitavano, per il momento, a non dare nell’occhio o a mascherarsi da proletari.»
Ed è di questo che parla questo libro, in un certo senso triste in una maniera in cui le parabole e le distopie successive di Orwell non riusciranno ad eguagliare. Perché se 1984 è la storia di un incubo, Omaggio alla Catalogna è il resoconto dell’infrangersi di un sogno. Per Orwell, la resistenza al fascismo sarebbe stata danneggiata dalle lotte interne tra le fazioni che operavano sul territorio catalano, specialmente dalle forze staliniste. Orwell, che militava nel POUM, un movimento d’ispirazione trockijsta, scrive infatti:
«Non si può negare che il Partito comunista fosse il principale sostenitore delle manovre prima contro il POUM, poi contro gli anarchici e i seguaci di Caballero tra i socialisti e, in generale, contro le tendenze rivoluzionarie.»
Con la messa fuori legge del POUM e i movimenti non allineati allo stalinismo da parte del governo repubblicano (nel quale prevaleva la linea del Partito comunista), Orwell è costretto a fuggire dalla Spagna. Poco dopo, Franco avrebbe sconfitto i repubblicani e instaurato la dittatura.
Dopo la sconfitta dell’esercito repubblicano, la Catalogna avrebbe passato poco meno di quarant’anni sotto l’oppressione di Franco. Dalla fine degli anni trenta agli anni settanta, i membri di questa comunità non hanno potuto parlare la propria lingua, né dare nomi di battesimo catalani ai propri figli. Forse è anche per questo che, dalla fine della dittatura, la Catalogna ha cercato di affrancarsi sempre di più dallo stato spagnolo, prima diventando comunità autonoma (e reintroducendo il catalano nelle proprie scuole e negli uffici pubblici), poi, soprattutto dopo la recente crisi economica, promuovendo i referendum “secessionisti”.
Orwell si era dovuto togliere il colletto e la cravatta per entrare in Catalogna, dove «quando gli anarchici dominavano ancora, si era rispettabili se si aveva l’aspetto di un proletario.» Al momento della fuga, però, la situazione si era invertita: per uscire da lì senza attirare sospetti, era meglio sembrare un borghese. Questo cambio d’abito riflette casualmente il cambiamento che deve essere avvenuto in Orwell stesso, che dopo essere arrivato a Barcellona pieno di illusioni, sarebbe tornato a Londra deluso e amareggiato, senza più speranze per quanto riguarda, almeno, il comunismo reale staliniano.
Eppure, Omaggio alla Catalogna rimane un libro fondamentale, forse addirittura più per capire Orwell che per capire la situazione del tempo. Fu questa l’esperienza che lo portò a mettere in crisi le sue stesse convinzioni politiche spingendolo ad un ultimo grande atto d’indipendenza: quella nei confronti dei propri stessi ideali. Molti studiosi, tra cui Ehrenfeld, hanno riconosciuto a Orwell una grandissima lucidità che pure non gli impediva di seguire con coerenza ciò che “sentiva” essere giusto. Così Orwell, che sicuramente era per idee molto vicino al socialismo, non fece mai finta di non vedere o di non capire i problemi che l’applicazione pratica di tali idee avevano portato. Del resto, l’apice della sua carriera di scrittore, che lo vide comporre quei capolavori che ancora oggi vengono letti e citati un po’ ovunque (“1984” e “La fattoria degli animali“), fu la naturale conclusione della sua natura indipendente. Lo scrittore che si era emancipato dalla sua famiglia, dal suo nome e dal suo cognome, dal suo posto di lavoro, dalla sicurezza di un’Inghilterra relativamente in pace, finì per allontanarsi dalle sue stesse nobili illusioni e più oneste convinzioni (non era forse un istinto all’uguaglianza che lo aveva portato a vergognarsi delle comodità borghesi?) per affrontare con coraggio la realtà.
La Catalogna aveva attratto Orwell come una terra dove la rivoluzione sembrava possibile. Oggi persino ottenere un referendum legale sembra un miraggio. Eppure, come ottant’anni fa, questa zona torna ad essere il centro dell’attenzione degli europei: i vertici UE condannano sia il referendum illegale che la reazione violenta della polizia spagnola e il presidente della Serbia, Vucic, si è lamentato a gran voce di una disparità di trattamento. Secondo quanto ha affermato Vucic pochi giorni fa, non ha senso che il Kosovo sia stato riconosciuto indipendente senza un referendum quando, quello catalano, non viene neanche considerato legale. In queste circostanze complicate e contraddittorie, non si può fare a meno di soffrire l’assenza di una mente appassionata ma lucida come quella di Orwell.
Luca Ventura