eutanasia cappato
Illustrazione di Duna Llobet. Fonte immagine: Instagram

Il 27 luglio scorso la Corte di Assise di Massa ha assolto Marco Cappato e Mina Welby, imputati per il reato di istigazione e aiuto al suicidio di Davide Trentini. L’uomo, malato di sclerosi multipla, è morto il 13 aprile 2017 accedendo alla procedura di suicidio assistito in una clinica di Basilea. Mina Welby lo aveva aiutato nelle procedure burocratiche, mentre Cappato aveva raccolto i fondi mancanti per il pagamento della pratica di eutanasia nella struttura svizzera.

La vicenda di Davide Trentini si inserisce in una serie di atti di supporto – morale, organizzativo, economico – che Cappato e l’Associazione Luca Coscioni hanno offerto negli anni a chi ha voluto accedere a pratiche eutanasiche al di fuori dell’Italia, subendo per questo motivo anche processi penali. Noti sono i casi di Piergiorgio Welby e, più recentemente, di Fabiano Antoniani, noto come Dj Fabo. In relazione alla vicenda di quest’ultimo, Cappato è stato sottoposto a processo dalla Corte di Assise di Milano per aver aiutato l’uomo nelle pratiche amministrative ed averlo accompagnato a morire in una clinica svizzera. Durante il giudizio è stata sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale (che prevede il reato di istigazione e aiuto al suicidio).

Marco Cappato, attivista e tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, impegnata da anni nel riconoscimento dell’eutanasia legale. Fonte immagine: 2duerighe.com

Le aperture della Corte Costituzionale su eutanasia e suicidio assistito

La Consulta, con una sentenza del dicembre 2019, ha affermato che non può essere punito «chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli». Con questa storica pronuncia, diventa centrale la ferma e costante volontà della persona che, allo strenuo delle forze fisiche e psichiche, vuole porre fine alla propria vita (ed è stato il caso di Fabiano Antoniani). La volontà del paziente nega l’offensività del comportamento di chi ne facilita la realizzazione: proprio grazie a questa sentenza Cappato è stato assolto.

La sentenza, inoltre, apre uno spiraglio alla non punibilità dell’assistenza medica al suicidio (o suicidio assistito), ossia la condotta del medico che prescrive il farmaco letale (di solito un barbiturico) al paziente affetto da una grave malattia, che però lo assume in autonomia. Ovviamente devono ricorrere le condizioni dettate dalla sentenza perché il medico non sia punito, e sono necessarie una verifica delle strutture del Servizio sanitario nazionale e un parere del comitato etico territorialmente competente.

Una legge completa che non arriva

I giudici, tuttavia, intervengono caso per caso; si tratta quindi di atti di giustizia sporadici. Sul fronte normativo, invece, in Italia non c’è ad oggi una legge completa che regoli l’eutanasia. Dopo il noto caso di Eluana Englaro, in cui il Parlamento è volutamente rimasto inerte, un primo tentativo di regolamentare il fine vita è stato fatto nel gennaio 2018, con l’entrata in vigore della legge sul consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento (legge 219/2017). Le uniche tutele sono accordate all’eutanasia passiva, che consiste nella volontà del paziente di sospendere le cure e i trattamenti che lo tengono in vita e accedere, eventualmente e nell’ultima fase, alla sedazione palliativa profonda continua. È rimasto invece il divieto di eutanasia attiva (o volontaria), in cui il paziente manifesta la volontà di morire tramite iniezione di un farmaco letale, solitamente un barbiturico, che a differenza del suicidio assistito viene somministrato da un medico.

Per quanto riguarda le DAT (disposizioni anticipate di trattamento), comunemente note come testamento biologico, con esse qualsiasi persona maggiorenne e capace d’intendere e di volere esprime la sua volontà anticipata su quali accertamenti e trattamenti sanitari possono essergli applicati nel caso in cui in futuro diventi incapace di autodeterminarsi. Su questo nuovo strumento, però, non c’è stata alcuna campagna informativa dei governi avvicendatisi nel corso del tempo, nonostante sia stata istituita una Banca dati nazionale delle DAT.

Non ci sono stati ulteriori passi avanti. Sin dal 2016 l’Associazione Luca Coscioni promuove il dibattito nelle aule parlamentari tramite la campagna “Eutanasia legale“. La discussione era stata rinfocolata dal processo per la morte di dj Fabo, durante la quale la Consulta si era volutamente data una finestra temporale ampia per decidere (un anno), proprio per dare la possibilità alle Camere di discutere e approvare una legge sul fine vita. Tuttavia ad oggi non esiste nemmeno un testo base. C’è però una proposta di legge di iniziativa popolare lineare ed esaustiva, promossa sempre dall’Associazione Luca Coscioni, che sinora ha raccolto più di 136.000 firme.

Una questione di tutela della dignità umana

Il silenzio della politica è davvero assordante. Solo nel 2020 settantacinque persone (malati terminali o loro parenti) si sono rivolte all’Associazione Luca Coscioni per chiedere informazioni o aiuto per accedere a pratiche eutanasiche in Svizzera. Dal 2015, le persone salgono a circa 900. Anche i cittadini sarebbero pronti per una legge vera sull’eutanasia: a fine 2019 il 93% degli italiani si dichiarava d’accordo. Se il diritto segue e mai precede i cambiamenti della società, i tempi possono dirsi maturi per una presa di posizione del Parlamento, che rappresenterebbe un fermo atto di responsabilità nei confronti di propri cittadini che si vedono negato il diritto a una buona morte.

Per quanto l’eutanasia sia una questione etica di particolare complessità, c’è un fulcro centrale sul quale interrogarsi. Qual è la cifra di una vita degna d’essere vissuta? Vedersi vivere o essere-nel-mondo, attivamente, agendo e relazionandosi con esso? La dignità umana, decantata in tutte le carte costituzionali moderne, è ravvisabile in una persona affetta da una patologia irreversibile che la costringe ad assistere passivamente allo scorrere della propria esistenza? Basterebbe semplice capacità di immedesimazione per capire che un uomo, senza la possibilità di muoversi, parlare, relazionarsi – e quindi vivere – ben potrebbe accarezzare la scelta libera e consapevole, seppur estrema, di porre fine alla sua vita.

Non si chiede allo Stato di tutelare il suicidio, o di depenalizzare il comportamento di chi lo istiga o ne agevola l’esecuzione. Si chiede di riconoscere la giustizia della scelta di un malato terminale che, in particolari condizioni, vuole morire. Una proposta di legge ci sarebbe, un popolo che la sostiene pure. Manca, quello sì, un sussulto di dignità del Parlamento.

Raffaella Tallarico

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