Sembra essere una storia di nostalgia a tinte oscure quella che racconta il Guatemala degli ultimi mesi. Nostalgia di una politica governativa vecchia di quasi sessant’anni che, oggi, rivive drammaticamente nella figura del presidente Otto Pérez Molina.
È il 1954: uno dei tanti golpe finanziati dalla CIA in America Latina rovescia il governo del presidente democraticamente eletto Jacobo Arbenz Guzmán. L’operazione militare passata ai posteri come PBSUCCESS inaugura la dittatura di Carlos Castillo Armas che, dal 1960, trascinerà il Guatemala nel baratro dei 36 anni di guerra civile, una delle più luride e sanguinose che il Centro America abbia mai conosciuto.
Nel 1996, alla risoluzione del conflitto, il bilancio era di 200.000 morti e 450.000 esiliati. In quell’anno, tra i rappresentanti delle forze armate che siglarono gli accordi di pace, c’era anche Molina, generale di ferro del regime, che nel 2011, al suo secondo tentativo, vinse le elezioni presidenziali con quasi il 55% delle preferenze.
Il Guatemala è stato uno dei primi paesi latinoamericani ad aver patito le meschinità della CIA, in quanto, oltre al pendolo degli equilibri internazionali sanciti dalla Guerra Fredda, organi del governo statunitense ebbero interessi ancor più diretti in questo piccolo paese mesoamericano. Nel 1953, i fratelli Allen e John Foster Dulles, rispettivamente direttore della CIA e Segretario di Stato, erano i principali azionisti della United Fruit Company (oggi Chiquita Brands International), multinazionale in controllo di vaste piantagioni di banane in Guatemala; piantagioni che Arbenz Guzmán, alla sua elezione nel 1951, promise di ricondurre sotto il controllo statale per redistribuirle poi tra i campesinos indigeni, nobile proposito che non fu mai in grado di mantenere a causa della sua conseguente esautorazione.
Quegli stessi indigeni che Arbenz Guzmán intendeva tutelare divennero uno dei principali bersagli del regime militare, che in pochi anni distrusse circa 450 villaggi maya, inasprendo una politica volta al genocidio e alla pulizia etnica che ridusse circa un milione di indios, legittimi proprietari di quelle terre, alla condizione di rifugiati.
Oggi, a distanza di decenni, le lotta maya per la difesa della terra continuano, ed il governo di Molina, conosciuto in patria come “Manodura”, è colpevole di una nuove mattanze e provocazioni da terzo millennio. Sin dai tempi della conquista spagnola, infatti, le popolazioni locali hanno dovuto affrontare invasori di ogni sorta e, oggi, il nemico numero uno porta il nome di Cementos Progreso, società cementifera fondata nel 1899 da immigrati italiani.
Nel 2006, le comunità della zona ovest del paese hanno videro invasi i propri territori da parte delle grandi imprese e furono portate all’attenzione internazionale grazie anche a James Anaya, relatore speciale dell’ONU per i diritti dei popoli indigeni, che in un suo intervento del 2011 sottolineò il fatto che “la presenza delle grandi imprese nei territori indigeni ha generato una situazione di grave conflittualità e ha causato enormi divisioni nelle comunità“.
Se, da un lato, gli accordi di pace del 1996 sancirono il termine della guerra civile, dall’altro determinarono l’apertura delle frontiere guatemalteche allo sciacallaggio di multinazionali petrolifere, idroelettriche, agroalimentari e, soprattutto, minerarie, che anno dopo anno succhiano linfa vitale alle ormai stremate comunità indigene, violando, inoltre, le condizioni del Trattato di libero commercio stipulato con gli USA nel 2006.
La vergognosa linea politica che il governo di Città del Guatemala ha intrapreso a tutela delle corporazioni è sfociata, negli ultimi mesi, in piena repressione, interessando principalmente il pueblo di San Juan Sacatepéquez, in cui sono stati uccisi 11 leader delle consultas comunitarias, che dal 2008 sono riunite nel Consejo de los Pueblos Mayas de Occidente. Come se non bastasse, le proteste indigene hanno dato adito al presidente Molina di dichiarare lo stato di emergenza, sospendendo alcune basiche garanzie costituzionali come il diritto all’aggregazione ed emanando, tramite magistratura, una quarantina di ordini di cattura che hanno portato ad arresti tra i membri delle consultas.
Il tempo, dunque, pare essersi fermato, in questa regione del mondo in cui continua a tirare aria di guerra sporca e, tra circa un anno, i guatemaltechi torneranno alle urne per eleggere un nuovo governo. L’auspicio è di dare il via ad un processo di pacificazione collettiva che conceda le libertà e i diritti dovuti alle comunità indigene di un paese in cui, nonostante 22 etnie su 24 riconosciute siano di origine maya, le sperequazioni e le disparità sociali sono tra le più acute dell’intera America Latina.
Cristiano Capuano