Dal 28 ottobre al 16 novembre “Uno spazio per il teatro” presenta “La cella zero”, uno spettacolo di Antonio Mocciola che vuole denunciare il fallimento dello stato nel processo di rieducazione dei detenuti.
La rappresentazione ha come elemento centrale la biografia di Pietro Ioia (interpretato da Ivan Boragine) , figlio di una madre tabaccaia e un padre contrabbandiere di sigarette. La sua famiglia con lui tendeva a quel riscatto che desiderava ottenere, ma a Pietro la scuola non è mai piaciuta e la vita di strada ha iniziato man mano a risucchiare anche lui. Dopo i primi furti e le prime esperienze Pietro si ritrovò a capo di una piazza di spaccio a Forcella, con enormi somme di denaro da gestire, l’illusione di poter provvedere a sua moglie Pina e a sua figlia Anna, finché le sue speranze ed i suoi sogni sono stati soffocati, rinchiusi, con lui, nel carcere di Poggioreale.
Sono gli anni ’80 e la vita dei carcerati di Poggioreale non è semplice.
Dietro le sbarre un uomo diventa un numero, perde le sue fattezze e non ha più bisogni di alcun tipo. Un uomo trema e si fa più piccolo, ha costantemente paura ed è stanco.
Il desiderio di libertà cresce e si alimenta, il diritto dell’ora d’aria evidenzia prepotentemente tutte le privazioni che a cui è costretto, lo infuria, come un leone in trappola.
“Qui la gente muore e nessuno lo sa, i nostri figli crescono e non li vediamo, ce la prendiamo contro i più deboli, contro i froci. Qui la gente viene abbandonata dopo 20 anni di carcere, in un mondo che non sa più come utilizzarla. MA NOI SIAMO UOMINI.” urlano gli attori dal palco, interpretando uomini disillusi, stanchi dei continui maltrattamenti in quella che loro chiamavano “cella zero“.
L’appuntato (interpretato dallo stesso Pietro Ioria) è un uomo scostante e autoritario, tortura fisicamente e psicologicamente i detenuti per puro divertimento, approfitta delle loro moglie e sorelle, crea un clima di disperazione che tramuta Poggioreale in un luogo ancora più torbido di quel che dovrebbe essere. Con parole taglienti fa a brandelli ogni sogno e desiderio di redenzione: le persone non cambiano e, una volta rigettate nel mondo, non potranno far nulla per evitare il loro fallimento. Nelle sue amare parole si nota una vena di rincrescimento e di invidia, la consapevolezza che il vero recluso è lui, gli altri usciranno, ma lui porta la galera con sé, ovunque.
In questo clima tagliente e ansioso, la paura si fa sentire e non basta alcuna idea di solidarietà leopardiana. Il dolore è tanto grande da farsi concreto e poterlo toccare, si amalgama ai sensi di colpa e divora le anime.
Gli effetti scenici utilizzano nebbia e forti luci che a tratti danno l’impressione allo spettatore di star spiando tratti di vita illuminati da bruschi flash, rapidi e crudeli.
Auriemma (alias Ivan Improta) subiva le calunnie dei suoi compagni da piccolo, la vergogna che nutriva sua madre nei suoi confronti, la colpa di essere gay. Era a Poggioreale per aver ucciso uno dei bulli che gli rendeva la vita impossibile, ma ora che a torturarlo erano le autorità dello stato, avrebbe migliorato la situazione solo eliminando se stesso.
Auriemma è solo uno degli esempi di quel grande dolore che si è vissuto a Poggioreale fino al 1982, solo una delle tante morti.
“Questo spettacolo è una denuncia allo stato che non esiste. L’abbiamo ambientato in un carcere, ma tale disagio di vita può essere trasposto in qualsiasi altro posto. Abbiamo messo in scena una sofferenza reale, resa in modo spettacolare. L’obiettivo è che la gente sappia, il progetto ha un presupposto sociale e sono solo gli spettatori a rendere davvero grande la eco.”
Sono le parole del regista Vincenzo Borrelli, seguito dagli attori che invitano alla consapevolezza e alla realizzazione di uno stile di vita accettale e soprattutto sicuro.
“Pietro Ioia dopo 22 anni esce da prigione, riabraccia la moglie,ritorna al mondo. Il finale aperto dà tanta speranza ed è quello il messaggio che vogliamo trasmettere.” conclude il regista.
Alessia Sicuro
Fotografie a cura di Dario Simone.