Un grido di dolore avanza da Parigi. Tre uomini incappucciati e armati di kalashnikov il 7 gennaio hanno provocato la morte di otto giornalisti, due agenti assegnati alla protezione del direttore, un ospite che era stato invitato alla riunione di redazione e il portiere dello stabile. Troppo spesso sfogliando i giornali si leggono articoli di cronaca nera ai quali la gente resta spiazzata. Non esiste un perché alla morte, al voler provocare dolore o all’atto di uccidere.
Ma la triste vicenda che ha visto protagonista la redazione del giornale satirico francese “Charlie Hebdo” un perché ce lo serve su un vassoio d’argento: in una società evoluta come la nostra – pare – sia ancora pericoloso dar sfogo alla propria libertà d’espressione. Il popolo della rete infuria proclamando la sua indignazione, mostrando rispetto e solidarietà.
“L’uomo è libero ma dappertutto è in catene” recitava Rousseau e forse non aveva torto. Questo attentato terroristico ci coinvolge tutti, perché noi tutti siamo cittadini del mondo con dei pensieri, delle idee, un futuro, un barlume di speranza che ogni giorno preghiamo perché non si spenga. L’attacco alla libertà è un qualcosa di cruento e mostruoso, una parentesi oscura in una società che spera di evolversi in positivo, ma non è l’unico suo male. I terroristi in questione sono musulmani e sembra che a nessuno sia sfuggito questo particolare. La generalizzazione di un male non è così diversa dal grave torto che ci è stato inflitto. Accusare i musulmani nel loro insieme non ricostruirà la “Charlie Habdo” così come non ci ridarà indietro quelle vite così tragicamente volate via.
Non è una guerra di religione, la religione non autorizza o accetta il male del prossimo. Come in ogni popolo esistono i buoni ed i cattivi e far la differenza è il primo passo per eliminare questi atroci pregiudizi sociali. Con etichette assegnate per rabbia o senza una reale condizione di giudizio si cade nello stesso errore di quei terroristi che ci hanno tanto sconvolto col loro gesto. Si alimenterà il razzismo, l’odio per il prossimo e il risultato sarà quello di aver loro privato della libertà. Facendo di tutta l’erba un fascio non si permetterà agli innocenti di dir la propria opinione, di camminare serenamente per strada, di rasserenarsi.
La libertà di sentirsi a casa e di sentirsi accettati, la libertà di far quattro chiacchiere con la vicina. Questo si chiama vivere, non priviamogli della vita. In rete si sta già muovendo qualcosa. Accanto all’hashtag #jesuischarlie sta dirompendo #notinmyname. Come due fiumi in piena divampano e travolgono i social network, si spera per incontrarsi a metà strada. “Le differenze arricchiscono. La paura alimenta l’odio. Noi oggi abbiamo bisogno di arricchimento, e non di odio. Ci dispiace che certi eventi vengano innalzati come inno all’odio e alla chiusura in noi stessi. Questa volta non lo accettiamo.” e ancora “Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto.“
Sono le tipologe di tweet di cui il web straborda. Le campagne dell’anti Isis si svolgono anche nelle piazze in cui gli attivisti di Active Change hanno raggruppato i messaggi di tutti i musulmani stanchi di esser oltraggiati per gesti che loro condannano. “Basta uccidere innocenti in nome mio” è il loro audace slogan. Nelle moschee ormai si prega quasi esclusivamente per allontanare il pericolo dell’Isis, etichettato come il nuovo nazismo. “L’Islam ci insegna il rispetto, la misericordia, la pace e la gentilezza. È una fede in cui crediamo molto, e per questo vogliamo difenderla dagli estremisti e dai fanatici, la cui esistenza è una minaccia per la nostra stessa religione”, ha spiegato ad Huffington Post Uk uno dei protagonisti della campagna.
Alessia Sicuro