Se si volesse definire “costituzionale” la crisi che ormai da mesi attanaglia la Polonia, sarebbe opportuno non attribuire a questo aggettivo un significato esclusivamente giuridico.
Un completo disordine coinvolge infatti il Paese ad una molteplicità di livelli (sociale, culturale, politico e anche giuridico), tanto che, se di una “Costituzione” in crisi si vuole parlare, questa va identificata con gli elementi costitutivi, con la “Costituzione reale” della Polonia, prima ancora che con quella giuridica.
Sicuramente il diritto costituzionale è il parametro più immediato, oggettivo e diretto su cui basare un’analisi della crisi polacca. È appunto in base alle violazioni della Carta costituzionale, ovvero del sistema di pesi e contrappesi tra poteri che reggono il gioco democratico, attuate dal governo espressione dalla maggioranza parlamentare guidata da Diritto e Giustizia, che il Consiglio d’Europa esprime le sue reprimende, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo produce i suoi avvertimenti, gli Stati Uniti rimproverano, l’Unione Europea minaccia la sospensione dei diritti di voto. Eppure, la disamina della “crisi di costituzione” del Paese può anche cominciare da un punto diverso: dal constatare, ovvero, l’impegno del governo nel cancellare o revisionare l’eredità storica del suo recente passato. A questo fine, un grande nome della storia polacca contemporanea o anche, semplicemente, il nome di una strada sono le vittime designate.
Pochi ignorano probabilmente che Lech Wałęsa è stato l’eroe dell’emancipazione polacca dalla pesante cortina sovietica, durante gli anni ’80: la vicenda di Solidarność e delle sue battaglie sindacali è leggenda nella Polonia moderna, insieme alla figura del suo fondatore, insignito del Premio Nobel per la Pace nel 1983. Ebbene, almeno dal febbraio scorso, il grande nome di Wałęsa è appunto nel fango: secondo alcuni documenti riservati, pubblicati dall’Istituto per la Memoria Nazionale, un organo che si propone di ripulire la storia polacca dai suoi indesiderabili punti neri, a partire dal 1970 Wałęsa avrebbe agito da informatore della polizia segreta di regime, col nome in codice di “Bolek”, riportando notizie riservate dagli ambienti del porto di Danzica. Wałęsa per la verità non ha mai negato di aver firmato ai tempi un accordo con la polizia per diventarne informatore, ma ha sempre sostenuto di non essere mai diventato operativo.
Le accuse oggi mettono in discussione il mito nazionale, cui la maggioranza dei polacchi è grata e affezionata e, se la veridicità dei documenti fosse attestata (ci vorranno almeno 6 mesi, contando che la polizia in quegli anni puntava molto sulla produzione di falsi che screditassero gli oppositori politici), si determinerebbe, c’è da giurarci, un vero e proprio shock storico-culturale. Di questo se ne avvantaggerebbe solo Diritto e Giustizia, com’è ovvio, la cui “rivoluzione” politica sarebbe l’unica su cui, a questo punto, dovrebbe farsi cieco affidamento, una volta caduto irrimediabilmente il primo dei pilastri costitutivi e pertanto costituzionali della Polonia moderna.
Su questa falsariga, sembra un’iniziativa in tono minore e persino giustificata, al contrario, quella di eliminare ogni riferimento all’Unione Sovietica e al comunismo dai nomi delle strade e dei luoghi pubblici: il problema è che, per stessa affermazione del solito Istituto per la Memoria (ma c’è da chiedersi la memoria di cosa resterà, di questo passo), potrebbe essere anche rimosso ogni monumento celebrativo e ogni riferimento ai partigiani comunisti liberatori dall’occupazione nazista nella Seconda Guerra Mondiale. Peraltro, la decisione non ha fatto nemmeno tanto piacere alla Russia, che ha protestato ufficialmente mettendo in crisi le già fragili relazioni con la Polonia. Lo spauracchio di Mosca è sempre tornato utile a Varsavia per chiedere aiuto o assistenza all’Occidente e potrebbe essere utile a Diritto e Giustizia anche in questo momento.
Altro pilastro costitutivo del Paese, protagonista diretto della crisi, è la religione cattolica. Diritto e Giustizia, sulla scorta delle dichiarazioni del suo devoto leader e vero burattinaio del governo Jarosław Kaczyński («come cattolico, io faccio quello che mi dicono i vescovi», ha affermato giorni fa), si è impegnato a mettere fuori legge l’aborto, coerentemente con le radici religiose della Polonia: la legalità dell’interruzione di gravidanza, attualmente assicurata in soli 3 casi (violenza sessuale, pericolo per la salute della madre, gravi malattie o mutilazioni del feto), potrebbe essere completamente eliminata. L’opposizione inutilmente parla di «riaffermazione di una tortura per le donne», contraria anche ai principi delle Nazioni Unite: queste critiche smuovono poco il governo, peraltro guidato (formalmente) da una donna, Beata Szydło, che ha affermato di aver supportato convintamente l’iniziativa, con l’appoggio compatto del resto dell’esecutivo.
L’unico punto fermo in questa totale burrasca è la protesta popolare. La piazza ha reagito colpo su colpo: 80.000 persone hanno manifestato per Wałęsa, alcune migliaia pro aborto. Le manifestazioni rappresentano l’ultima speranza che la coscienza fondamentale e costituzionale della Polonia non si disperda.
Così, una marcia di 50.000 polacchi ha coperto un percorso di almeno 3 km a Varsavia, in marzo, per difendere la Costituzione e il Tribunale Costituzionale da quegli attacchi del governo cui si accennava all’inizio. La paralisi dell’organo di revisione costituzionale delle leggi è ormai certificata dal fatto che mancano ancora i membri sufficienti per la legale funzionalità della Corte: ciò principalmente a causa dell’iniziativa che Diritto e Giustizia sta intraprendendo da mesi per riuscire a piazzare almeno 5 giudici di propria fiducia nel collegio, nonostante ne esistano già altri 5 in attesa di insediamento, nominati legalmente dalla precedente maggioranza. Inoltre, la dichiarazione di incostituzionalità, da parte della stessa Corte, della nuova legge che stabiliva tra l’altro la maggioranza dei due terzi per le deliberazioni sulla legittimità costituzionale, ha di fatto esacerbato gli attriti col governo: troppo evidente è sembrato ai giudici delle leggi il tentativo di compromettere la funzionalità del Tribunale, imponendo al collegio di trovare ogni volta una convergenza di pareri praticamente impossibile da ottenere. Il primo ministro Szydło ha per giunta rifiutato la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della decisione, sostenendone l’illegalità. Il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato è in questo caso gravissimo e dall’esito indeterminato, visto che la Corte è di fatto ancora in stallo.
Una forte indignazione si è registrata anche in relazione ai recenti provvedimenti sul controllo governativo dei media, che hanno portato finora al licenziamento o alle dimissioni di almeno 112 giornalisti; nonostante il tentativo della TV di stato di ridimensionare l’epurazione, attraverso l’assunzione di alcune firme vicine all’opposizione, il timore per il progressivo cedimento della libertà di espressione è crescente.
Lo si è detto, le reprimende internazionali sono ormai numerose e costanti, per quanto non accettate di buon grado da Varsavia: Kaczyński si spinge a paragonarle alle vecchie ingerenze sovietiche. Anche gli Stati Uniti, alleato tradizionale della Polonia in orbita NATO, hanno ormai rinunciato a supportare l’esecutivo polacco, invitandolo ad ascoltare i richiami UE.
Proprio il primo vice presidente della Commissione, Timmermans si è recato ancora a Varsavia martedì 5, alla ricerca di un nuovo compromesso per la soluzione della crisi costituzionale, dicendosi almeno fiducioso. Il Consiglio d’Europa invita il governo a tenere conto di una speciale istituzione, la Commissione di Venezia, che indaga sulle violazioni dei diritti umani. Più singolare la presa di posizione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha avvertito come, se lo stallo del Tribunale Costituzionale polacco perdurerà, si ritroverà inondata di ricorsi di cittadini polacchi che, non potendo adire il proprio giudice costituzionale, rimedieranno interpellando proprio la CEDU, sovraccaricandone il lavoro.
Non sembra che un partito euroscettico come Diritto e Giustizia possa comunque cedere alle minacce UE sulla sospensione del diritto di voto di Varsavia in seno alle istituzioni europee, con cui il governo polacco sembra avere interesse relativo ad interloquire; piuttosto, ci si può chiedere se, dove il diritto e la diplomazia non riescono ad arrivare, possano giungere il potere economico e la finanza. L’agenzia di rating Moody’s ha annunciato ieri che, se la crisi costituzionale dovesse perdurare, la Polonia metterà ulteriormente a rischio la propria credibilità finanziaria, spaventando gli investitori e impoverendo il Paese.
Sulla base di questi ulteriori rischi per la stabilità del Paese e delle quotidiane proteste di piazza, si alimenta il dubbio su dove sopravviva il consenso al programma politico di Kaczyński, che aveva populisticamente promesso ai cittadini Diritto e Giustizia. Con Costituzione e Corte costituzionale che sembrano soccombere, in Polonia ci si domanda cosa sia ormai il Diritto, e a beneficio di chi la Giustizia.
Ludovico Maremonti