Fateci caso. La stragrande maggioranza delle dichiarazioni del sindaco di Napoli Luigi De Magistris che i mezzi di comunicazione (su quotidiani, tv, internet) riportano nei loro pezzi provengono da un social network.

De Magistris ha detto; De Magistris ha tuonato; De Magistris si è scagliato: soggetti e predicati che richiedono, quasi per obbligo sintattico, un complemento di luogo mediatico (“su Facebook”, “su Twitter”), prima di rivelare il contenuto della dichiarazione.

Questione di pubblico; o, meglio, per dirla con la parola che il Primo Cittadino usa con più frequenza nei suoi interventi in rete, questione di “popolo”. L’informazione è un modus comunicativo che sempre più, negli ultimi anni, differenzia il suo destinatario in base al canale espressivo prescelto. Pochi leggono ancora i giornali di carta, molti resistono con la tv, ma quasi tutti, ormai, vengono sedotti dall’immediatezza dell’informazione fornita da e per le piattaforme comunicative globali (in questo caso, a risonanza locale), come, appunto, Facebook e Twitter. L’hanno capito i grandi gruppi editoriali, così come le piccole testate indipendenti (anche la qui presente) e l’ha capito anche la politica, a tutti i livelli.

Scelto il canale espressivo, ovvero scelto il proprio pubblico (o popolo), non resta poi che modulare la dichiarazione da rendere di volta in volta: pacata, sensazionalistica, un po’ l’una e un po’ l’altra, magari a seconda dei momenti e delle convenienze. L’importante, però, è fidelizzare il pubblico/popolo con parole chiave e ritornelli che consentano di identificare, quando si apre la home page del social network preferito, chi sta dicendo cosa, a chi e perché. Ecco, De Magistris, su Facebook (con post anche piuttosto lunghi e articolati) e su Twitter (nei vecchi 140 o nei nuovi 280 caratteri) lo riconosci subito. Se fai parte del suo pubblico/popolo, lo leggi subito e, probabilmente, ti convincerà subito perché, in fondo, sapendo già cosa cerchi, saprai già cosa aspettarti.

E sì che la retorica da tastiera demagistrisiana può ben dirsi essere più o meno sempre uguale a se stessa, con quella parola, “popolo”, costantemente in evidenza, in alto, in basso, al centro, di lato. Il collante dei discorsi social del sindaco è proprio il “popolo” che, alla bisogna, deve resistere, combattere, fare la rivoluzione, eccetera, a seconda dei casi. L’elaborazione di un senso di appartenenza del lettore, di un suo intimo riconoscimento in una comunità – popolo è la chiave per il successo internauta del post, per la sua risonanza: è il motore e il motivo delle reprimende degli avversari politici e quello delle condivisioni, commenti e retweet vari dei sostenitori storici o dei semplici sedotti dell’ultima ora.

De Magistris punta perlopiù a identificare il suo “popolo” militante in rete con il “popolo napoletano” che, appunto, nel “territorio” farà la “rivoluzione” e “spiccherà il volo” insieme alla “Città”. Usando costantemente le stesse modalità espressive, ne fa un marchio di fabbrica e riconoscibilità “social”, grazie al quale può permettersi anche di spaziare su argomenti non necessariamente connessi alla realtà cittadina, ma che hanno a che fare con fenomeni potenzialmente molto lontani nella dimensione geografica e politica, di cui magari si conosce meno (o poco); tuttavia, appunto, l’uso delle parole chiave garantisce comunque la risonanza presso il pubblico/popolo di aficionados e il senso di appartenenza ad un discorso politico ed emotivo più grande ma fondamentalmente coerente ed univoco, almeno in rete. Il che, poi, è l’unica cosa che conta.

La costanza di questo tipo di meccanismo è presto dimostrata da due esempi. Si prendano salomonicamente, per non far torto a nessuna delle due piattaforme, il tweet di De Magistris sul caos catalano di circa un mese fa e l’ultimo post su Facebook, datato 30 ottobre scorso. Nel primo caso, si parla di «Barcellona libera e potere al popolo»: poche parole, semplici, dirette, probabilmente efficaci, che senza imporre troppi pensieri al lettore inneggiano alla “libertà” della Catalogna con toni che fanno pensare ad un clima di guerra civile imminente. Le cronache di questi giorni hanno poi raccontato com’è andata (“popolo catalano” diviso in piazza a Barcellona e Governo locale in fuga a Bruxelles), ma la sensazione è che quel tweet era utile (a De Magistris, meno alla Catalogna) perché sintetizzava in una parola, “popolo”, l’essenza del social pensiero del sindaco. Quello che va notato, però, è che in quel piccolo spazio virtuale il Primo Cittadino avrebbe potuto benissimo sostituire “Barcellona” con “Napoli”: nessuno se ne sarebbe accorto.

Nel “popolo” di De Magistris si condensano, del resto, i tanti significati dell’antipolitica, dell’insoddisfazione seriale del disilluso, della massa eterna scontenta da istituzioni e potentati che, invece di pensare “ai bisogni della gente”, semplicemente “rubano” e “mangiano”. Senza dubbio, si tratta di una retorica che si attaglia perfettamente alla Napoli di questi anni, ma che consente, rispettando le regole del gioco retorico, pure l’omologazione social al caso napoletano di altri “popoli” percepiti (almeno in rete) come vessati e bistrattati; quindi, la visione della causa napoletana diventa automaticamente di ampio respiro e non vittimisticamente particolarista.

Il “popolo”, la massa di individui stemperata in un nome collettivo che apparentemente non ha confini, perché omogeneizzato nelle sue pretese di lavoro, realizzazione e legalità (ma in realtà non è così, perché poi quasi sempre si parla di “popolo italiano”, “popolo meridionale” e “popolo napoletano”, distinguendo origini “nazionali”, aspirazioni legittime e precedenze di soddisfazione) oggi aspetta solo l’ordine del Capo che gli proponga come reagire, come rimediare ai torti subiti e come prendere finalmente tutto quello che è suo. Nessuno si sente più “cittadino”, cioè soggetto di imputazione di diritti e doveri, perché a quanto pare non ci sono più istituzioni in grado di assicurare il rispetto di quelle posizioni giuridiche: perciò, risulta molto più immediato sentirsi “popolo” ed essere appellati e mobilitati (sempre almeno in rete) come tale.

Insomma, a quanto pare trasformare sui social networks i cittadini napoletani in “popolo napoletano” in lotta costante porta i suoi frutti: partecipando con un like o un commento si sta lottando, diventa questa la sensazione, per qualcosa di più alto della dignità dei mezzi di trasporto o il diritto alla casa o il pareggio del bilancio comunale. Si “lotta” anche per quello, ma “dopo”.

La lotta va programmata e articolata in più spazio, però. E qui entra in gioco il secondo esempio social, quello di Facebook, strumento che alla potenza dello scritto e del detto unisce quella dell’immagine, dell’evocazione, della sollecitazione dell’immaginario del “popolo”. Lo scorso 30 ottobre De Magistris scriveva (con post corredato da immagine di strette di mano con folle giovani, festanti e gaudenti): «Viviamo in un regime di liberismo finanziario che rallenta fortemente l’applicazione della Costituzione soffocando democrazia ed autonomia dei popoli. Resistere non è più sufficiente, si deve passare al contrattacco (…) Cercasi combattenti, da reclutare nell’esercito popolare di lotta per i beni comuni e per la liberazione (…) Si deve lottare con il corpo, con la mente e con il cuore, chi ha paura della rivoluzione si metta di lato».

Ecco, condensati come accade a cadenza regolarmente settimanale, gli ingredienti della miscela social di De Magistris: antiliberismo, Costituzione, popoli e rivoluzione (lotta). Retoricamente ordinati secondo un climax emotivo che parte dalla castrazione dei diritti, di matrice economico-finanziaria, e arriva all’esaltazione del movimento di gruppo per la liberazione. La miscela è perfetta, colpisce al cuore creando peraltro nelle migliaia di pupille leggenti un senso di accerchiamento che invita a rintanarsi nel fortino del “territorio”, sotto il comando del Capo, per organizzare la resistenza. Senza lasciare il tempo, il modo e forse anche l’interesse per capire contro chi, contro cosa e perché bisogna combattere. E, soprattutto, senza capire bene nemmeno con quali armi, a parte il corpo, la mente e il cuore, non proprio strumenti di esercizio dei diritti della cittadinanza tendenzialmente avvalorati dall’ordinamento.

Così, la rete dà molto. Con simili fondamenta, anche l’uso di canali diventati più border line nel gioco mediatico di questi anni, vicini ad un modo di comunicazione più tradizionale e in cui diventa indispensabile moderare maggiormente i toni, diventa sostenibile, perché essenzialmente secondario. Perciò, De Magistris può tranquillamente andare come ospite fisso in un’emittente televisiva locale per un programma a lui dedicato; oppure può occuparsi in una settimanale “videochat” (peraltro in onda su Facebook) nella redazione di Napoli di uno dei primi quotidiani nazionali: il tutto, per sviscerare in maniera più “istituzionale” i temi che, magari, il giorno prima ha raccontato col piglio rivoluzionario in caratteri ed immagini in rete. Perché in realtà è ormai sempre la rete il primo giudice, l’urna elettorale suprema in cui al posto delle schede si contano i “mi piace”. I social, per definizione, “scelgono” ormai la politica sotto ogni aspetto: basti pensare che De Magistris, in questo contesto, viene persino “eletto”, sicuramente anche in questo caso con un certo tornaconto “social“, come «secondo sindaco più elegante d’Italia».

Nell’impero della parola che, in quanto scripta, dovrebbe essere manens, ma al contrario volat come le più insignificanti delle verba, nel regno in cui si può dire tutto e il contrario di tutto, ma a patto di rispettare il canovaccio che ci si è scelti quando si è creato il “profilo”, la rete può però anche togliere. Soprattutto se si ha avversari che sono in grado di rivolgere contro di sé la dorata tastiera. Tralasciando le scontate arringhe destrorse sul «Che De Magistris», menzione speciale, in proposito, va ad un rigenerato Antonio Bassolino il quale, a ormai settant’anni, dimostra che le vecchie volpi della politica difficilmente si arrendono davanti a 280 caratteri. E che la sfida per il “territorio”, per il “like” del “popolo della rete” è aperta a tutti. E allora ben venga, per denunciare le carenze dell’Amministrazione, l’hashtag bassoliniano #deMagistrisdicaalsindaco. Chapeau, geniale, quasi quanto le lotte e le rivoluzioni on line dei popoli oppressi.

Ludovico Maremonti

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