“Il linguaggio è la casa dell’essere e nella sua dimora abita l’uomo”: tra le citazioni del filosofo tedesco Martin Heidegger, questa è forse una delle più celebri interpretazioni del suo asfittico, retorico e contraddittorio pensiero.
Di recente, il “silenzio” in merito all’indottrinamento nazista che affascinava Heidegger, è stato spezzato dal ritrovamento di alcuni documenti che il filosofo, probabilmente, avrebbe fatto meglio a bruciare. Considerandone la franchezza circa una pausa di riflessione politica durata otto anni, sperperare tra i cassetti le rivelazioni succulenti sul trattamento degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, non potrebbe che renderlo uno dei personaggi più denigratori dell’arte della filosofia.
Si badi bene che la filosofia è ricerca della verità attraverso l’amore per la conoscenza: se uno studioso dovesse arrivare alla supposizione finale di aver riscontrato la futilità della metafisica per l’ambizione dell’essere l’essente, colui non potrebbe mai risultare Heidegger, sofista per eccellenza e contraddittorio per intemperanza.
Forse la sua filosofia volgeva alla conseguenza di una fascistizzazione riflessiva, dovuta allo schieramento col fanatismo nazista; ma attendendo con ansia e torpore caustico la lettura dei “Quaderni neri”, curata da Peter Trawn, non possiamo che catalogare in ordine alcuni concetti fondamentali di Heidegger e rifletterli nella banalità di alcune scoperte, avutesi proprio grazie ai misteriosi testi ritrovati.
Il concetto fondamentale da cui estrapolare l’inizio di un filo conduttore è la visione della storia di Heidegger: la storiografia s’incastra nel retorico ed infinito “essente”, il quale appunto si pratica attraverso gli enti, nella condizione in cui questi provocano l’accadimento dell’evento. La storia è rappresentanza di ciò che siamo, nell’egual misura in cui noi manifestiamo le circostanze della storia attraverso la quotidianità. Così, prende forma il destino dell’essente.
Lo studio sulla metafisica è stato strumentalmente manipolato da Martin Heidegger in un processo paradossale: per il filosofo, infatti, la metafisica è nient’altro che tecnica con cui padroneggiare il mondo. L’evidenziare la negazione della metafisica innalzata a scienza, ma quale mezzo comunicativo in cui sfoggiare classe linguistica, comunque non sarebbe facilmente tollerabile da Kant, che scrisse nella Critica della ragion pura:
“La ragione umana, anche senza il pungolo della semplice vanità dell’onniscenza, è perpetuamente sospinta da un proprio bisogno verso quei problemi che non possono in nessun modo esser risolti da un uso empirico della ragione… e così in tutti gli uomini una qualche metafisica è sempre esistita e sempre esisterà, appena che la ragione s’innalzi alla speculazione”.
Potremmo classificare la tipologia di speculazione Heideggeriana nei termini di sistematiche ripetizioni, volte a considerare l’essente e la storia quali un tutt’uno, come un modo per semplificare troppe domande nel baratro della vuota esercitazione dialettica.
In questo libro che verrà presentato a breve in Germania, il filosofo giustificherebbe la Shoah come “il sommo compimento della metafisica”. Gli enti, vale a dire i soggetti pensatori ed attuanti, esercitano la propria natura, essendo attraverso l’annullamento dell’essere, arrivando quindi ad una sorta di turbolenta ascesi verso il nulla. Questo effetto di annullamento dei soggetti viene chiamato da Heidegger “accadimento dell’essente” ed anche “destino”.
Predisponendoci di fronte a questi concetti basilari della filosofia di codesto, chiediamoci: cosa c’entra parlare di autoannientamento ebraico? Heidegger avrà forse messo in discussione le pratiche di spaventosa repressione, incontrollabile schiavizzazione e congeniale vaporizzazione subite dagli ebrei per mano fisica e preparazione teorica del nazionalsocialismo tedesco?
In questi termini, se ne ricaverebbe la filosofia dell’assurdo, sormontante i romanzi di Lewis Carroll; ma se vogliamo riflettere attraverso uno slancio di propensione alla razionalità dell’esprimersi, in totale autonomia soggettiva e liberale, continuiamo ad inquadrare il discorso degli ebrei.
Come già scritto, l’effetto di disumanizzazione concretizzato dal sistema nazista attraverso i campi di lavoro, dovrebbe dimostrarci nuovamente l’inutilità della memoria di fronte alla sensazione del suicidio del pensiero desiderato dai detenuti. Mentre invece, ancora affiorano e ci rinvengono tipologie di barbariche filosofie. Se Martin Heidegger ha svolto bene uno studio, questo è stato quello meticoloso con cui stigmatizzare il concetto di storia e di uomo in una maniera meramente astratta: come se non fosse mai esistito uno stato di guerra tra i soggetti, gli ebrei diventano simbolo della “purificazione dell’Essere.” Ma sembra altamente scontato dimostrare che Heidegger, in poche parole, stesse negando l’evidenza di fronte all’esercizio di potere brutale di stampo nazista.
Alessandra Mincone