Il mondo intero ancora si interroga sull’escalation di violenza che ha avuto luogo in Siria in questi primi giorni di aprile. Il massacro di Khan Sheikhun, cittadina in mano ai ribelli siriani, era ancora vivido nella mente di tutti quando Donald Trump ha deciso di colpire con 59 missili la base dalla quale si suppone che il raid chimico sia partito. Una punizione esemplare ed una dimostrazione di potenza che non affievoliscono il clima infuocato del conflitto.
Nord della Siria, prime ore della mattina del 4 aprile. Nella provincia di Idlib va in scena l’impensabile. Un ammasso di cadaveri fa la sua comparsa tra la polvere dell’ennesimo attacco areo, questa volta è stato usato il gas.
Circa 80 persone, tra i quali almeno 20 bambini, cessano di vivere dopo convulsioni e perdite di sangue, le immagini dei piccoli corpi irrigiditi fanno il giro del mondo.
Il portale on line Shaam, vicino ai ribelli, parla di 22 raid portati a termine da jet russi. Il gas usato dovrebbe essere il cloro, e l’offensiva non ha risparmiato nemmeno le strutture di primo soccorso. Dall’agenzia di stampa statale RIA, il ministero della difesa russo smentisce tutto.
«Sono in Siria da un anno e tre mesi. E un attacco di quest’entità io non l’ho mai visto» dichiara il giorno dopo Massimiliano Rebaudengo al Corriere della Sera, e non deve averne visti pochi, dato che in Siria è capo missione di Medici Senza Frontiere. I primi responsi sui gas utilizzati cominciano ad arrivare, i medici sul campo comunicano a Gaziantep che i sintomi sono quelli provocati dai gas Sarin e Cloro, l’uno neurotossico, l’altro soffocante.
I sospetti sul mandante della strage sono infine ricaduti su Assad. Hollande ha subito attaccato il tiranno, così come Angela Merkel, che con toni perentori ha richiesto un intervento punitivo: «Io condanno aspramente il palese attacco con armi chimiche in Siria. Crimini di guerra del genere devono essere puniti».
D’altronde l’utilizzo di armi chimiche non è cosa nuova in Siria, per ben tre volte le indagini delle Nazioni Unite sono arrivate alla conclusione che il governo fosse colpevole. Nel 2013 l’ex presidente degli Stati Uniti Obama aveva minacciato più volte un intervento armato, definendo per la prima volta la famosa “red line”, ovvero un limite immaginario relativo all’utilizzo di armi chimiche, superato il quale Assad sarebbe stato colpito. La questione venne però poi affrontata diplomaticamente, Assad accettò di consegnare il suo arsenale chimico, trasportato nel nostro porto di Gioia Tauro nel 2014.
Nella notte tra il 6 e il 7 invece la via diplomatica è stata accantonata. Donald Trump senza passare per il Congresso ha ordinato il lancio di ben 59 missili Tomahawk, diretti verso la base dalla quale secondo l’intelligence americana erano partiti i raid chimici.
Una dimostrazione di forza innanzitutto rivolta al suo partito, dove c’era chi lamentava la mancanza di una discontinuità netta con Obama in questo campo, ma ovviamente i missili sono stati un segnale per tutto il globo ed in particolare per la Russia, il principale alleato del sanguinario leader siriano.
Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha subito condannato l’azione militare, notando una somiglianza tra questo intervento e quello in Iraq del 2003, che all’epoca fu giustificato proprio dal timore per la presenza di armi chimiche nella regione. I due interventi a ben vedere però non possono essere paragonati veramente, dato che questa volta l’intervento è stato limitato ed è costato la vita ad un numero ristretto di soldati, quattro. Tutti uomini di Assad.
Ovviamente anche il Presidente russo Vladimir Putin ha esternato il suo stupore, parlando di un’azione «fuori contesto». Più o meno quanto detto dal diretto interessato Assad, che ha accusato gli Stati Uniti di un attacco «irresponsabile», e di «cecità politica e morale».
Dall’Europa l’approvazione è stata quasi unanime. Certo, non tutti hanno dichiarato espressamente di essere d’accordo con i bombardamenti, ma come detto in precedenza in tanti aspettavano una presa di posizione forte. La gran parte dei leader ha preferito menzionare la negoziazione quale unica via di risoluzione dei conflitti, ma nessuno ha contestato con vigore Trump.
Theresa May ha giudicato la risposta statunitense «adeguata», Merkel e Hollande, in una nota congiunta promulgata dall’Eliseo, hanno addossato ogni responsabilità su Assad.
Gli unici avvisati in toto della decisione sono stati Inghilterra e Russia. Infatti il Cremlino ha ricevuto una chiamata telefonica novanta minuti prima del bombardamento, che altrimenti avrebbe potuto colpire anche suoi soldati, creando una situazione ancora più tesa.
Ciononostante si teme un’escalation di violenza nell’area, Assad e Putin sono chiamati a rispondere ma allo stesso tempo l’azione fulminea ha mostrato che con Trump ad ogni intervento corrisponde un’opposizione non solo diplomatica. Gli Stati Uniti in generale tornano a dire al mondo che se qualcosa, anche in un’area lontana e martoriata come la Siria, non va, loro si sentono legittimati ad intervenire. Donald Trump si riprende insomma il ruolo di arbitro del mondo, al quale aggiunge l’inquietante imprevedibilità del proprio carattere.
Il Generale Tricarico, presidente della Fondazione ICSA, ha dichiarato all’Huffington Post che l’attenzione mediatica verso la decisione di Trump è a suo avviso sproporzionata se confrontata con quella destinata ai raid russi degli scorsi mesi, considerati ben più massicci e condotti con modalità “da seconda guerra mondiale”.
Lui ha scelto di vedere il bicchiere mezzo pieno: ora che gli Stati Uniti sono tornati allo stesso livello di credibilità della Russia, nell’area potrebbero essere possibili dei negoziati efficaci.
Valerio Santori
(twitter:@santo_santori)