Il primo maggio scorso, mentre il popolo israeliano festeggiava il Giorno dell’Indipendenza, l’ex-leader di Hamas Khāled Meshʿal ha reso pubblico, in una conferenza stampa svoltasi a Doha (Qatar), una nuova carta che muta profondamente le posizioni politiche del gruppo.

Hamas, che dal 2007 controlla la Striscia di Gaza, è un’organizzazione islamica di resistenza attiva in Palestina dal 1987. Nata nel contesto della prima Intifada, fin dal principio Hamas ha mantenuto una linea politica dura caratterizzata dal non riconoscimento dello Stato di Israele e da un antisemitismo esplicito, con l’obiettivo di creare uno stato islamico entro i confini della Palestina storica. Considerata un’organizzazione terroristica da USA e Unione Europea, Hamas ha sempre fatto largo uso della lotta armata e, soprattutto, è nota per la tecnica degli attacchi suicidi.

I blackout continui che colpiscono la Striscia di Gaza mettono a rischio il funzionamento delle strutture sanitarie oltre che la vita di 2 milioni di persone.

Questa radicale inversione di rotta ha fatto molto discutere i media internazionali, perché, seppure non inaspettata, giunge in un momento particolare poco prima della prima visita ufficiale del presidente dell’Autorità Palestinese (ANP), Maḥmūd ʿAbbās, a Washington. La nascita di Hamas negli anni ’80 è strettamente legata al crollo della fiducia della popolazione palestinese nei confronti dell’OLP e in particolare del partito al-Fatah (lo stesso dell’attuale presidente ʿAbbās e del leader storico Yāsser ʿArafāt), accusati di corruzione e di un’eccessiva apertura nei confronti di Israele. Nell’ambito del processo di Oslo (1991-1993) al-Fatah ha riconosciuto lo Stato di Israele, ha accettato le risoluzioni ONU 242 e 338 e ha rinunciato alla lotta armata.

La vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2006 ha portato a una rottura tra le due fazioni dell’ANP: in seguito ad una violenta lotta intestina e all’impossibilità di giungere a un compromesso, Cisgiordania e Gaza sono state sottoposte, dal 2007, a due amministrazioni separate.

Oltre ad aver perso lo status di rappresentante del popolo palestinese presso la comunità internazionale, ultimamente ʿAbū Māzen non gode di grande popolarità presso l’opinione pubblica: il già nominato incontro con il presidente Donald Trump sembra essersi risolto con le solite promesse vuote, mentre nelle carceri israeliane l’acerrimo rivale del presidente acquista popolarità portando avanti uno sciopero della fame che dura ormai da settimane.

Inoltre da aprile l’autorità di Ramallah, che da dieci anni cerca di riottenere l’amministrazione della Striscia di Gaza, ha annunciato una serie di tagli economici (in particolare alla fornitura elettrica, già scarsissima, e una riduzione del 30% ai salari dei dipendenti statali) che peggiorerebbero ulteriormente le condizioni di vita della popolazione, mossa che probabilmente ha influito sull’apertura di Hamas.

ʿAbū Māzen e Donald Trump a Washington.

Il documento prevede l’accettazione dei confini del 1967 per la formazione di uno Stato palestinese autonomo (i territori, attualmente occupati, di Cisgiordania, Striscia di Gaza e Gerusalemme Est) con Gerusalemme come capitale e ribadisce il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. La nuova linea è sostanzialmente in accordo con la soluzione dei due Stati, accettata da quasi tutti gli attori politici internazionali tranne che dallo Stato di Israele, e tuttavia sottolinea la questione del diritto di tutti i profughi palestinesi a ritornare alle terre espropriate dal 1948 in poi, uno dei punti più caldi dei negoziati per la pace. Inoltre Hamas sostiene il proprio rifiuto dell’odio religioso nei confronti degli ebrei, riaffermando invece la sua opposizione all’ideologia sionista e a Israele in quanto potenza occupante.

Meshʿal ha presentato la “nuova Hamas” come un’organizzazione aperta al dialogo. Pur non rinunciando a combattere per la liberazione della Palestina con ogni mezzo necessario, anche con la lotta armata, c’è la volontà da parte del gruppo islamista di sposare posizioni più moderate.

L’improvviso bisogno di moderare la sua linea potrebbe essere un mero calcolo politico, come sostiene il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, teso a migliorare i rapporti con la comunità internazionale e con il mondo occidentale da una parte, e dall’altra con le potenze arabe della regione (nella carta viene anche citata l’indipendenza di Hamas dai Fratelli Musulmani, un’organizzazione islamista mal vista soprattutto in Arabia Saudita ed Egitto).

«Hamas sta cercando di ingannare il mondo ma non ci riuscirà», queste le parole del portavoce di Netanyahu che chiariscono qual è la risposta israeliana a quest’apertura, come riporta il quotidiano israeliano Haaretz. Anche qui, nessuna sorpresa. Da cinquanta anni continua l’occupazione, illegale dal punto di vista del diritto internazionale, dei territori palestinesi e così l’impegno di Israele a minare l’unità territoriale di un’eventuale Palestina. Sebbene formalmente impegnato nei processi di pace, il governo israeliano non ha mai smesso l’opera di colonizzazione dei territori che va avanti dal 1967: poco più di un mese fa il Primo ministro ha annunciato la costruzione di una nuova colonia a nord di Ramallah, come risarcimento per i coloni illegali sgomberati a febbraio da un provvedimento della Corte Suprema.

Il nuovo leader di Hamas, Ismaʿīl Haniyya.

Oggi l’obiettivo principale dell’ANP dovrebbe essere ritrovare l’unità nazionale dei palestinesi.

Giungere a un compromesso per la formazione di un governo e indire finalmente delle nuove elezioni non sarà semplice: da una parte c’è l’autorità di Ramallah, che può contare sul supporto (almeno ideologico) del mondo occidentale e che mantiene i rapporti con Israele, dall’altra c’è Gaza, che gode delle simpatie del popolo palestinese, ma che tuttavia è tagliata fuori dalla comunità internazionale per le sue azioni violente contro lo Stato di Israele e i suoi cittadini. Israele non può che essere avvantaggiato da questa lotta interna per continuare la sua politica coloniale, mentre la comunità internazionale continua a non avere alcun effettivo potere sulla faccenda.

La settimana scorsa l’UNESCO ha adottato una nuova risoluzione sullo status di Gerusalemme, che considera Gerusalemme Est un territorio occupato e continua a non riconoscerla come capitale dello Stato di Israele. Dei 55 paesi votanti 23 si sono astenuti, 22 sono stati favorevoli alla risoluzione e 10, tra cui l’Italia, hanno espresso un voto contrario.

Pochi giorni dopo la notizia della nuova linea politica di Hamas arriva anche quella dell’elezione di un nuovo presidente dell’Ufficio Politico del  Movimento: Ismaʿīl Haniyya, considerato dai più un moderato.

Claudia Tatangelo

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