Francesco Rosi, Napoli e il cinema: una vita per l'impegno civile

«Con il succedersi dei miei film, mi sono reso conto che, effettivamente, il cinema si era impadronito completamente della mia esistenza. Penso che non si può essere un creatore se non si è completamente posseduti da qualcosa.»
Forse non tutti sanno che Francesco Rosi – grande regista e sceneggiatore italiano del Novecento – era di Napoli. Il suo era un carattere più schivo, meno appariscente di tanti altri illustri concittadini. Tuttavia, di Napoli, Rosi conserva intatta la prolifera creatività, l’innata verve artistica. Come egli stesso amava dire:

«La litigiosità rientra nell’umore della mia gente. C’è nell’aria una provocazione continua. Sono in troppi a essere creativi, in quella cinta daziaria. Napoli è sterminata. Ma lo spazio per convivervi tutti in pace risulta sempre troppo stretto.»

Napoletano di Chiaia, frequentò il liceo Umberto I, dove strinse amicizia con alcuni illustri personaggi della Napoli anni ‘30, quelli che saranno i compagni di una vita, legati dall’amore per la cultura e per l’impegno politico, tra cui il futuro Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il giornalista Antonio Ghirelli. Ed è proprio da questo circolo di amici – i ragazzi di via Chiaia – e dalle lunghe serate passate a discutere di teatro, cinema, letteratura, politica e impegno civile, che Rosi trarrà spunti, idee e suggestioni utili alla sua formazione e comincerà ad appassionarsi al cinema e al teatro, nonostante avesse iniziato gli studi in Giurisprudenza.

L’avventura cinematografica di Francesco Rosi ebbe inizio come assistente alla regia per il film ‘La terra trema’ (trasposizione cinematografica dei Malavoglia di Verga) diretto dal grande Luchino Visconti. Visconti fu, insieme a Zeffirelli, guida e maestro per Rosi, che grazie a lui ebbe modo di venire a contatto con il cinema neorealista. La stagione del Neorealismo segnò, di fatto, una rivoluzione, un giro di boa, rispetto al cinema del passato. È il cinema dei fatti, del quotidiano, è l’irruzione della vita nel cinema, che abbandona gli schemi del racconto, non obbedisce più a delle regole ben precise che conducono inevitabilmente a un lieto fine, ma si arrende all’incertezza – che è anche inquietudine – della vita. Per gli spettatori è ora più semplice identificarsi nelle vicende dei protagonisti, farne propri paure, speranze e sconfitte, soprattutto in un periodo come quello del dopoguerra, in cui il Paese era uscito pressoché distrutto dall’esperienza bellica.

Francesco Rosi farà suoi tecniche e tematiche del Neorealismo, spingendoli ad un livello successivo, quello del film inchiesta, che è a tutti gli effetti una sua invenzione e rimarrà la cifra stilistica distintiva della sua intera carriera cinematografica. Se ne allontanerà solo in alcuni momenti, in cui deciderà di dedicarsi ai romanzi, a temi più universali, simbolici e metaforici (come in Cristo si è fermato ad Eboli e C’era una volta…, splendido film in costume con Sophia Loren e Omar Sharif).

Una scena di ‘C’era una volta’
fonte: Quinlan.it

Nel film d’inchiesta Francesco Rosi affronta il cinema coi mezzi del giornalismo, per raccontare e analizzare i fatti con una finalità sociale, fondendo l’intervista giornalistica e l’indagine fotografica, in un momento storico preciso, quello degli anni ‘60 e ’70, così denso di accadimenti per la storia italiana: dal piombo della mafia (raccontato in film come ‘Salvatore Giuliano’ e ‘La Sfida’), al cemento dei costruttori (tema centrale di ‘Le mani sulla città’, una spietata denuncia della corruzione e della speculazione edilizia italiana negli anni sessanta), alla centralità del denaro (famosa rimarrà la frase “Il denaro non è un’automobile, che la tieni ferma in un garage: è come un cavallo, deve mangiare tutti i giorni.”).

Una scena di ‘Le mani sulla città’
fonte: cinemaitalianodatabase.com

La sua carriera è costeggiata da premi e riconoscimenti – una Palma d’Oro al Festival di Cannes per Il Caso Mattei, due Leoni d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, un Orso d’Argento al Festival di Berlino per Salvatore Giuliano, ben tre nastri d’Argento e dieci David di Donatello – e, cosa ancor più importante, dalla stima e dall’apprezzamento dei suoi colleghi. Tra gli altri, Federico Fellini, lo descrive così:

«Sono confortato dall’esistenza di un regista come Francesco Rosi, che mi affranca un pochino da quel vago, vaghissimo senso di colpa che talvolta mi insidia quando sono costretto ad ammettere che i problemi sociali, le indagini sociologiche, le passioni politiche mi sono estranee o ancor peggio indifferenti. Il disagio, il senso di inadeguatezza, lo scontento, il sospetto di un’adolescenza protratta oltre i limiti, si dissolvono pensando che gli sdegni, le denunce, le polemiche, insomma, quel tipo di impegno in me così tiepido c’è qualcuno come appunto Franco Rosi che invece lo vive appassionatamente anche per me

Fonte immagine in evidenza: The Independent

Antonella Di Lucia

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