Ho sempre creduto che i sogni fossero, per loro stessa natura, colorati. Di più, un guazzabuglio di tavolozza impregnato di macchie e odore di vernice, sfumature e arcobaleniche policromie. L’incontro nudo tra il caos e il cosmos, la deriva ancestrale dai canoni meramente biologici della natura, il ritorno dell’uomo alla sua origine unica ed universale. Un aforisma divenuto celebre di Schopenhauer dice infatti: “La vita e i sogni sono pagine dello stesso libro. Leggerle in ordine è vivere, sfogliarle a caso è sognare”.
Cari lettori, bentornati al brainch e grazie ancora, come sempre, della vostra compagnia. Mi rendo conto che parlare di sogni mentre ancora si è mezzi addormentati possa rappresentare una crudele provocazione… o forse un sottile colpo di genio. Ma com’è ovvio, non è ai sogni che si fanno sul cuscino che voglio riferirmi. Per cui recuperate una tazzina di caffè e poi tornate qui. E fate pure con calma, il sito non si muove.
Sapete, quel 5 novembre di sei anni fa ero anch’io, come molti, davanti alla televisione con gli occhi lucidi di commozione, ad ascoltare un discorso di speranza dall’uomo che era appena divenuto la personalità più influente al mondo. “Yes, We Can”, ripeteva con empatia enfatica il distinto ed elegante presidente Obama. E con lui milioni di volontari, attivisti, giovani e meno giovani protagonisti di una campagna sorprendente, per certi versi rivoluzionaria, che prometteva di mutare ogni cosa.
Il sogno obamiano, lo confesso col malincuore dell’idealista, a distanza di sei anni, si è tramutato nel più canonico incubo da promesse disattese. E le elezioni di metà mandato hanno posto fine, con due anni d’anticipo, ad un’esperienza a suo modo meravigliosa, ma così pregna d’aspettative da non aver mai saputo confrontarsi con la spietata realtà a stelle e strisce: un mondo a tal punto pervaso dall’avidità capitalistica, dagli enigmi di potere, dall’asservimento al Dio Denaro, da tramutare i sogni in semplici vagheggiamenti ai margini dell’utopia. Ci ha messo del suo, Obama, piegandosi ben presto alla mentalità imperialista made in USA, e neppure il secondo mandato ha saputo stravolgere la logica del compromesso coi repubblicani; anzi tutt’altro.
Si era presentato coi capisaldi del pacifismo e dell’ecologismo, ottenendo anche significativi risultati, tra cui non si può non menzionare il Nobel per la Pace. È giunto in seguito ad avallare ogni operazione militare in terra straniera che gli capitasse a tiro, nonché la produzione di shale oil, petrolio americano a buon mercato ottenuto attraverso procedure di fracking (sgretolamento delle rocce, ndr), ad altissimo impatto ambientale.
Che fine hanno mai fatto i sogni di riscatto, di rivalsa e di giustizia sociale promessi da Obama? Impantanati in una riforma della sanità mai attuata pienamente e ancora a rischio per le pressioni politiche dall’ala destra del Congresso. Una condizione penosa, svilente, quella dell’uomo del millennio ridotto a poco più che uomo del biennio… e pensare che, tutto sommato, gli americani non hanno di che lamentarsi, dato che altrove è andata peggio (vedi Italia, alle voci “Matteo Renzi, Silvio Berlusconi, Beppe Grillo”).
È triste ammetterlo, forse anche un po’ demotivante, ma è ciò che accade quando la morale si scontra con l’opportunismo, quando l’etica incontra l’interesse, quando a prevalere è il potere o il danaro del singolo sulle reali necessità dei molti. Tali sono le conseguenze della politica fondata sull’ego e sull’individualismo, che potrebbe essere arginata soltanto in un modo, ovvero con l’equiparare il valore di ogni singolo uomo a quello di tutti quanti gli altri. Ma si tratterebbe di un termine che fa così paura soltanto a pronunciarlo, che c’è da chiedersi se, in fondo in fondo, a noi elettori e detentori della cosiddetta “sovranità popolare” non faccia poi piacere trovarci nelle misere condizioni attuali.
Com’è lontano quel 28 agosto del 1963. Eppure, quelle fotografie in bianco e nero, sfocate, sgranate, lise dagli anni, custodiscono una vividezza incorruttibile, una bellezza pura e cristallina oltre i dettami del tempo che avanza e trascina ogni cosa. Sono i colori della speranza e del coraggio, i colori dei sogni così perfettamente tratteggiati da Martin Luther King davanti alla platea di Washington, quei sogni così semplici ed intatti nella loro onesta lucidità:
“Io ho un sogno, che un giorno i miei quattro piccoli bambini possano vivere in una nazione dove non siano giudicati per il colore della loro pelle, ma per la tempra del loro carattere”.
Anche Obama, per molti versi, è un erede di quell’esempio. Tutti noi, a modo nostro, abbiamo molto da imparare da quelle parole, da quelle mani decise, da quell’unisono di cuori in palpito al Lincoln Memorial. I sogni che si fanno da svegli, più genericamente traducibili come “idee”, hanno un gran pregio: quello di non essere prezzabili. Ed è per questo che il mondo ne ha così paura.
E i vostri sogni, di che colore sono? Parlatemene, con una mail a ilbrainch@liberopensiero.eu.
Buona domenica a tutti, e al prossimo brainch.
Emanuele Tanzilli