Giungono notizie dall’Estremo Oriente e parlano di gente per le strade. Hong Kong, infatti, sta vivendo intense ore di protesta, dopo la decisione del governo cinese di proibire a due parlamentari indipendentisti del parlamento di Hong Kong di accedere alla carica.
Il motivo scatenante risale a metà ottobre, quando Yau Wai-ching e Sixtus Baggio Leung, giovanissimi e indipendentisti, da poco eletti in parlamento con il partito Youngspiration, si sono rifiutati di giurare fedeltà allo stato cinese. I due, infatti, durante la cerimonia hanno cambiato la formula del giuramento e sventolato bandiere blu con scritto “Hong Kong non è Cina”. Il giuramento ufficiale prevede una dichiarazione di fedeltà ad “Hong Kong, regione amministrativa speciale della Repubblica Popolare Cinese”, mentre i due hanno tolto dalla sentenza la parte relativa alla Cina, giurando così fedeltà alla “nazione di Hong Kong”.
Da quel giorno, nel parlamento di Hong Kong, si sono susseguiti giorni confusi e stalli parlamentari, senza che si riuscisse a risolvere la situazione o capire come procedere. Ieri, però, è arrivata la notizia della decisione di Pechino. Il governo cinese, infatti, ha interpretato in maniera più rigida una disposizione della Costituzione di Hong Kong, dichiarando che chi non giura fedeltà alla Cina non può accedere in Parlamento. In questo modo, i due parlamentari sono stati esclusi e non potranno riprendere la carica se non pronunciando quelle parole.
«Dopo le elezioni del consiglio legislativo, alcune persone hanno invocato l’indipendenza» afferma ad una conferenza stampa del 7 novembre Li Fei, presidente della commissione “Basic Law” del parlamento nazionale. «L’interpretazione di oggi aiuterà a difendere l’unità nazionale e la sovranità». Nel discorso di Li Fei, inoltre, veniva riportato come l’indipendentismo – ed ogni sua possibile sfumatura – fosse un danno all’integrità territoriale, alla sicurezza nazionale e all’economia cinese.
L’intervento di Pechino, tuttavia, ha un significato importante per la popolazione di Hong Kong e rappresenta non a caso il primo intervento che il governo intraprende da vent’anni a questa parte. Hong Kong, ex colonia britannica, parte della Repubblica Popolare Cinese dal 1997, è una regione amministrativa speciale. Possiede maggiore indipendenza e una certa autonomia rispetto alla Cina continentale. Ad esempio, ha un proprio parlamento e proprie elezioni, può decidere autonomamente per quanto riguarda gli affari esteri e la difesa militare, ha una diversa e indipendente magistratura. La Cina dovrebbe svolgere, nei suoi confronti, il ruolo di “supervisore”, ma può intervenire negli affari interni della regione dettando l’ultima parola, come previsto dalla Costituzione della regione.
L’intervento di Pechino è stato interpretato come una vera e propria intromissione, nonostante la Costituzione di Hong Kong lo preveda, e un attentato alla libertà dei cittadini di Hong Kong. È per questo che, in queste ore, si susseguono le proteste. Inoltre, le accuse nei confronti dell’indipendentismo hanno acceso gli animi di parte della popolazione di Hong Kong che ancora oggi non si considera cittadina della Repubblica Popolare Cinese. Essendo stata per anni colonia britannica, infatti, Hong Kong ha una propria specifica cultura, profondamente influenzata dal rapporto con l’Occidente e differente da quella cinese-continentale. Non a caso, di Hong Kong si dice che è “l’Oriente che incontra l’Occidente”.
In questo momento, quindi, la gente è per le strade. Molte persone hanno simbolicamente tirato fuori gli ombrelli, simbolo delle proteste pro-democrazia verificatesi nel 2014. E vi sono stati anche tafferugli con la polizia. Ma a lamentarsi non sono soltanto i pro-indipendenza. «Il governo cinese sta distruggendo l’indipendenza giudiziaria di Hong Kong», dichiara un manifestante ad Aljazeera, «La Cina sta tentando di controllare quello che pensiamo [e] persino persone contrarie all’indipendenza stanno manifestando in questo momento il loro dissenso». Il timore, insomma, è che la Cina possa intervenire di nuovo. Ed Hong Kong perdere la propria autonomia.
Elisabetta Elia