Tra realismo e surrealismo, genio e follia, disciplina e brama di andar oltre, conquistare la vetta.
È in queste particolari sfumature che si nasconde la figura di Torquato Tasso, lo scrittore visionario con un bagaglio culturale ed emotivo che vale la pena disfare.
“Il Tasso piacerà sempre più alle anime romantiche, mentre l’Ariosto sarà sempre più ammirato dagli spiriti classici.”
Recita Giuseppe Prezzolini, incantato dalla maestria e dalla fervente passione del Nostro.
Una passione che l’ accompagnerà sempre, che lo porterà alla convenzione che “le mie robbe, oltre i libri, son poche, e di poco momento [..], ma i libri esimo quasi quanto la vita”(tratto da una lettera nel 1587).
Poco pratica è stata la sua vita, un’esistenza basata sul rincorrere il padre, un poeta cortigiano che senza rendersene conto lo ha strappata dall’unico bagliore di speranza , quella felicità che forse avrebbe fatto la differenza con l’andare degli anni. Torquato ha dovuto infatti abbandonare la sua vita a Sorrento, lasciare la madre e la sorella per poi rimpiangere per sempre quell’ipotetica vita che avrebbe potuto renderlo felice.
Non a caso ho parlato però di genio, un genio letterario che è iniziato ad uscir fuori in tenera età.
Tasso era particolare, pretendeva forse troppo da se stesso, ma sapeva che l’apice l’avrebbe raggiunto scrivendo un capolavoro che non doveva essere un’opera qualsiasi. Il poema epico era per lui un motivo di prestigio, l’eccellenza e la perfezione, ne avrebbe scritto uno, infallibile, perfetto e avrebbe capito davvero di valer qualcosa.
Provò, neanche a diciotto anni, con la “Gierusalemme” ma non era ancora pronto, lo sapeva bene, quindi decise di temporeggiare tra lezioni di poetica e il suo primo romanzo cavalleresco, “Il Rinaldo”.
Tasso ha assunto un ruolo predominante nella letteratura italiana. Dopo i suoi scritti ormai non si può più parlare di favola pastorale senza citare l’Aminta, il madrigale o il sonetto senza il corpus dei suoi testi lirici, il poema sacro senza il Mondo creato, ma soprattutto il poema epico senza la Gerusalemme liberata.
Ciò che lo rende speciale è basato sul fattore storico, che mai come in nessun altro è riuscito a dilaniare il suo spirito, alterando la sua visione del mondo già tragicamente compromessa dalla malattia psichica che lo ha trattenuto per sette lunghi anni nell’ospedale di Sant’Anna.
Nella seconda metà del Cinquecento la letteratura, influenzata dall’atmosfera controriformista, stava man mano perdendo la sua libertà, il suo spirito cortigiano e laico, favorendo una letteratura di tipo pedagogico, approvata dalla chiesa per i suoi messaggi spirituali e nel contempo soffocata dai rigidi dettami religiosi.
Tasso divenne così un letterato privo di un reale baricentro.
“O Musa, tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona,
ma sul cielo infra i beati cori
hai di stelli immortali aurea corona..”
Dopo una prefazione che ricorda molto l’ “Arme viromque cano” virgiliano Tasso adotta questa particolare invocazione nel primo canto della Gerusalemme liberata. Mette subito le cose in chiaro, nessuna divinità pagana, niente blasfemia, l’opera è dedicata alla Madonna, la madre dei cieli, che spera possa essere magnanima. “Perdona s’intesso fregi al ver” la prega, come se si scusasse per una bugia, una menzogna che sta per raccontare per raggiungere il suo scopo: scrivere un’opera grandiosa ma, nel contempo, accattivare i lettori e la famiglia degli Este, suoi commissionari.
Il problema per un’innovazione tanto ardita si poneva quando Tasso si rese conto di dover farsi spazio in un clima letterario che aveva come eroe Ariosto con il suo ormai famosissimo romanzo cavalleresco. La platea richiedeva poesia, astrazione, avventure. Questo poneva varie interferenze non solo sul piano della teoria, ma sulla vera e propria articolazione del testo. Il Nostro è riuscito quindi a trovare un compromesso. Impossibilitato nel strutturare l’intero poema cavalleresco con l’entrelacement, ha creato una storia lineare e verosimile (la spedizione dei crociati per recuperare il santo sepolcro) impreziosita dalle vicende dei soldati cristiani e musulmani che seguono la struttura adottata da Ariosto.
Ogni singolo personaggio di tali episodi è frutto di una gravosa analisi. Con Tasso la letteratura italiana ha infatti percorso i suoi primi passi verso il genere del romanzo psicologico. Goethe affermerà secoli dopo che Torquato Tasso ha scritto un dramma dedicato alle sue contraddizioni, facendone un eroe vittima di se stesso. Così ci troviamo di fronte a dei personaggi vivi, pronti a regalarci ogni forma di emozione, a scavare nella nostra psiche e a farci crollare ogni certezza. Rinaldo, l’immaginario capostipite degli Este, è l’eroe istintivo, cede all’ira, cerca di far la cosa giusta ma si ritrova percorrere ardue pellegrinazioni. Cede alla passione amorosa, all’incantesimo d’amore della maga Armida. Diventa il suo fantoccio, l’amante sottomesso e beffato, anche dal pappagallo che ironicamente ripete senza sosta il tema della filosofia Oraziana del “carpe diem”.
Ma proprio Armida, la femme fatale per eccellenza subirà nel finale una metamorfosi che la ridurrà ad una Didone virgiliana col cuore spezzato. Quindi non mancano colpi di scena e crescita morale dei protagonisti, anzi Tasso sembra divertirsi nel descrive della forza d’animo di personaggi come la guerriera pagana Clorinda, che ha rattristato i cuori di tutti i lettori con la sua improvvisa morte per mano dell’amante malinconico Tancredi. All’apice del poema la figura di Goffredo di Buglione scruta e tesse le trame del suo esercito. Non a caso il poema doveva intitolarsi a suo nome, quello del generale cristiano simbolo di purezza e giustizia. È Goffredo ad ordinare ogni cosa e da questo principio si apre la metafora che racchiude l’intera opera: la disciplina è simbolo del cristianesimo, quelli che se ne allontanano sono gli erranti, coloro che vagano e che cadono in errore (Rinaldo ad esempio scapperà perché combattuto dall’ira).
Non a caso i musulmani sono descritti divisi, variopinti, privi di unità. E su questa base e grazie alla finzione letteraria si riconosce anche un primo bifrontismo spirituale, quel principio di “rivelare ciò che si pensa e si vorrebbe tramite la negazione” che sarà argomento di studio per Freud secoli dopo.
L’ultimo tassello è il “problema del meraviglioso ariostesco”. Tasso non poteva introdurre anelli magici o scudi che rendono invisibile, ne avrebbe gravato il “vero condito” che finalmente era riuscito a raggiungere. La soluzione si è rivelata quella di scrivere di angeli e demoni, trasportando il poema in una visione di meraviglioso cristiano che nessuno poteva criticare.
L’opera ebbe un successo inaudito, peccato però che Tasso cambiò orientamento filosofico durante il suo soggiorno all’ospedale psichiatrico. Le continue visioni religiose lo spinsero a desiderare di non aver mai scritto nulla del genere e si ritrovò a dover difendere contro la critica un’opera che non apprezzava più perché pubblicata senza il suo consenso.
Provò poi a riscriverla, col nome “Gerusalemme conquistata” introducendovi tutte le privazioni ben accette dalla chiesa. Ma si sa, un capolavoro è un capolavoro, e il pubblico italiano non poteva più far a meno della sua Liberata.
Alessia Sicuro