Immaginate un territorio grande più o meno come la città di Firenze. E adesso provate a immaginare che, invece del Duomo, Ponte Vecchio, Santa Maria del Fiore e Galleria degli Uffizi, questa gigantesca area sia popolata solo ed esclusivamente da tende e baracche, abitate da circa 276 mila rifugiati, quasi tutti somali. Ora, private questo luogo di qualsiasi elementare servizio igienico, comprese fogne, servizi ed acqua corrente.

Il risultato è il campo profughi di Dadaab, in Kenya, noto per essere il più grande del mondo, che per qualche tempo – e precisamente sino allo scorso giovedì, quando l’Haute Cour di Nairobi ha invalidato il provvedimento del Governo – ha rischiato di chiudere i battenti.

Come si è arrivati a questa situazione? La decisione dell’esecutivo si inserisce in un contesto di repressione del terrorismo locale, che ha raggiunto il suo culmine con l’attentato del 2 aprile del 2015 presso il campus universitario di Garissa, insanguinato dall’opera di un commando armato facente capo al gruppo estremista di Al Shabaab, trucidando 148 persone, fra studenti e responsabili della sicurezza.

Subito dopo la strage, il Governo ha ordinato la chiusura del campo profughi di Dadaab, che secondo gli autori del provvedimento ospiterebbe un traffico d’armi con i terroristi, il che tuttavia, ad oggi, non è stato mai provato.

Di certo, il luogo continua ad essere teatro di affari paralleli al mercato ufficiale, come baratti e scambi commerciali che vedono i locali, da una parte, nel ruolo di venditori di cibo, vestiti e capi di bestiame, e dall’altra gli stessi rifugiati, che offrono i prodotti della terra che riescono a coltivare.

In un tale contesto di povertà e degrado, non è impossibile che si siano sviluppate forme di traffico illecito, tuttavia la soluzione governativa sembra essere stata dettata più da esigenze di propaganda elettorale – il prossimo agosto si vota per la riconferma, che appare scontata, del Uhuru Kenyatta – che per una minaccia terroristica attuale e comprobata.

Di questo stesso avviso i giudici di Nairobi, che il 9 febbraio scorso hanno dichiarato nullo il provvedimento di chiusura del campo profughi di Dadaab, e di conseguenza bloccato l’iter di rimpatrio dei rifugiati somali.

Propendere per il contrario, ha dichiarato il giudice John Matuvo, sarebbe stato «un atto di persecuzione illegale, discriminatorio, sproporzionato e incostituzionale, oltre che in contrasto con gli obblighi internazionali del Kenya».

Viene così sposata la tesi degli attivisti per i diritti umani, come Amnesty International, che ha accolto con comprensibile soddisfazione la pronuncia dell’Alta Corte, sottolineandone sia gli immediati benefici per gli oltre 250.000 rifugiati, ma anche l’importante significato simbolico della decisione, che dimostra l’indipendenza dei tribunali kenyoti nei confronti di un governo sostenuto con una maggioranza plebiscitaria, ma che non può ergersi in nessun caso al di sopra della legge.

Carlo Rombolà

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