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Brexit: c’era una volta un Regno Unito

Il termine Brexit è divenuto d’uso comune. Eppure, non sembra ancora chiaro a cosa realmente afferisca.

Fermandoci al significato letterale, “Brexit” unisce in un’unica parola ciò che in italiano si traduce come “uscita della Gran Bretagna”, con riferimento all’Eurozona.

La Brexit diviene realtà a seguito dei risultati emersi il 23 giugno 2016, quando si è svolto lo storico referendum riguardante la permanenza o uscita del Regno Unito dall’UE. Riguardo tale quesito le forze politiche scese in campo sembrano dimostrarsi fortemente frammentate.

Molti, inoltre, definiscono azzardata la scelta di David Cameron (Conservatore ed ex primo ministro inglese) di lasciare tale decisione totalmente nelle mani del popolo.

Per capire realmente cosa abbia portato il Regno Unito all’odierna situazione, però, bisogna tornare indietro nel tem, al 1975.

Nonostante il voto favorevole dei ⅔ al referendum riguardante l’appartenenza dello UK al blocco europeo, Margaret Thatcher esprime scetticismo verso la completa integrazione del Paese nel mercato unico europeo, il che porta alla decisione di non aderire all’uso dell’euro.

Nel 1997, dopo vent’anni in cui i Conservatori si trovavano al potere, il partito Laburista vince le elezioni, ma resta forte il dibattito sull’UE.
Il 2009 si dimostra essere un anno importante per l’Unione, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, caratterizzato dal famoso art.50, indicante il processo di recesso volontario ed unilaterale di un Paese dall’UE.

Cameron promette, in caso di vittoria del partito Conservatore alle elezioni dell’anno seguente, maggior potere decisionale al popolo britannico.
Nel frattempo, il fronte euroscettico vince alle elezioni parlamentari europee con l’UKIP (Partito per l’indipendenza del Regno Unito).
Nell’ottobre 2011 più di 80 Conservatori votano una mozione per indire un referendum riguardo l’uscita dall’UE.
Forti pressioni dal fronte euroscettico del partito Conservatore e dell’UKIP, mosse in forza di un “conto in sospeso” risalente al referendum del ‘75, portano inoltre Cameron a promettere l’indizione di un nuovo referendum sui rapporti GB-UE nel gennaio 2013.

Nel 2015, come auspicato da Cameron, i Conservatori vincono le elezioni e permettono al primo ministro di iniziare la propria campagna per la rinegoziazione dei rapporti tra UE e Regno Unito.

La frammentazione interna al partito Conservatore diviene sempre più evidente. Alcuni si schierano contro il referendum; altri, come l’ex sindaco di Londra, dichiarano la loro posizione a favore dell’uscita dall’UE equiparando un voto per il remain all’“erosione della democrazia”.

Il 23 giugno, con il 51.9% dei voti, il Regno Unito si proclama a favore dell’uscita dall’UE.
Promossa dall’allora ministro degli interni May, a pochi giorni dal referendum viene messa in atto una campagna mediatica low-cost contro l’immigrazione clandestina, aspramente criticata su più fronti.

L’emergente pressione psicologica contro il diverso sembra assecondare i sempre più frequenti attacchi xenofobi, che si verificano nei confronti di cittadini europei ed extra-europei al grido di “British first!”.
Cameron decide, conseguentemente al risultato referendario, di dimettersi dalla carica di primo ministro. Il 13 luglio il suo successore è deciso: Theresa May.

Prendono forma, da questo momento, politiche nazionaliste, notevolmente in disaccordo con il multiculturalismo che da sempre costituisce l’identità del popolo britannico.

Il governo May rifiuta le quote europee di ripartizione dei profughi, e partecipa al finanziamento per la costruzione di un muro sullo stretto della Manica.
Inoltre, ciò che ha, da ultimo, inasprito i rapporti tra Regno Unito e forze europee è la proposta avanzata dal ministro dell’Interno britannico di obbligare le aziende nazionali a rendere pubbliche liste indicanti i propri lavoratori stranieri.
In molti si sono schierati contro questa proposta. Tra questi le associazioni degli imprenditori e la Camera di Commercio britannica, che accusano il governo di creare divisioni all’interno delle aziende e danneggiare la forza-lavoro del Regno Unito.
Accuse più pesanti provengono dal leader dei laburisti Corbyn, affermando che il partito conservatore ha

«toccato il fondo […] cercando di incolpare gli stranieri per i loro fallimenti».

Ecco, così, spiegato il dietrofront del governo May, annunciato attraverso un’intervista alla ministra dell’Istruzione Greening: le liste verranno richieste alle aziende in forma “confidenziale”, per fornire dati utili al rafforzamento di programmi di training ed istruzione nei settori dell’economia in cui sembri verificarsi un deficit di lavoratori britannici.

Merkel e Junker hanno espresso la possibilità di auspicare un pieno accesso al mercato interno europeo unicamente in corrispondenza alla piena accettazione delle libertà fondamentali europee: libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali.
La partecipazione del Regno Unito a tale mercato è indicata da Cameron come una delle più grandi sfide nell’ambito dei negoziati con l’UE, il cui inizio è previsto entro marzo 2017.

Il parlamento, dalla sua, si è espresso sulla necessità di porre ai voti i termini di negoziazione, per assicurare “giusti risultati”, stando a quanto affermato dal laburista Starmer.

In definitiva, gli unici punti fermi nella trattativa UK-UE restano, da un lato la volontà della May di “riprendere il pieno controllo” sul destino britannico, e dall’altro la fermezza delle autorità europee.

Di fatto, afferma il negoziatore del Parlamento europeo per la Brexit, Verhofstadt:

«l’UE difenderà i diritti fondamentali dei suoi cittadini, ovunque essi siano».

Ginevra Caterino 

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