Lo scorso 13 marzo ad Ankara, attorno alle 18.45, un’autobomba ha causato una violenta esplosione vicino a una fermata dell’autobus, provocando la morte di almeno 37 persone e ferendone altre 127. Si tratta del terzo attentato avvenuto nella capitale in cinque mesi, l’ultimo il 17 febbraio.
Come nelle due precedenti, anche questa volta i sospetti di Erdoğan sono ricaduti quasi istantaneamente sul PKK, il movimento politico che dal 1984 conduce una lotta armata per rivendicare maggiore autonomia della minoranza curda in Turchia. Uno dei due kamikaze, infatti, è stato identificato dalle fonti interne come una donna curda vicina al PKK. Proprio l’attentato di febbraio, che però aveva coinvolto solo convogli militari, oggi è attribuito quasi con certezza ai TAK, un’ala estremista e ormai indipendente del PKK. Si sarebbe trattato di un episodio inserito nel più recente conflitto tra ribelli curdi ed esercito turco, in corso nella parte sud-est della Turchia da luglio e divenuto sempre più sanguinario negli ultimi quattro mesi, provocando numerose vittime non solo tra i guerriglieri, ma anche tra gli stessi civili curdi. Secondo alcuni sarebbe plausibile che l’incrementarsi della violenza e delle tensioni abbiano portato a un mutamento di strategia all’interno dei movimenti armati curdi, scegliendo di colpire indiscriminatamente anche i civili.
Rimane comunque il fatto che, almeno per il momento, non c’è stata alcuna rivendicazione ufficiale da parte di nessun gruppo, ma, ciò nonostante, la reazione del governo turco non ha avuto indugi: nella notte di domenica sono iniziati i primi raid contro alcune postazioni del PKK sulle alture dell’Iraq.
In linea con le operazioni militari, l’azione di Erdoğan non si è fatta attendere nemmeno dal punto di vista politico. Il presidente, infatti, ha strumentalizzato immediatamente l’attentato non solo per accusare nuovamente i curdi di terrorismo, ma anche per puntare il dito contro tutti quei gruppi e partiti moderati, interni alla Turchia, che sostengono una linea filo-curda, primo fra tutti l’Hdp. Così, al suono di «o siete con noi oppure con i terroristi», viene tracciata, ancora una volta, una netta linea di demarcazione tra buoni e cattivi, tra chi appoggia i terroristi e chi protegge la popolazione turca, ovvero tra i sostenitori ortodossi delle decisioni di Erdoğan, spesso radicali ed oppressive, e chi cerca di trovare delle soluzioni democratiche e risolutive per la difficile situazione di quello che viene definito il più grande popolo senza stato.
Che il presidente turco non tolleri i dissidenti politici, soprattutto se appoggiano la causa curda, era già emerso più volte, anche nel recente passato. Risale ad appena due giorni prima dell’attentato la notizia dei 464 procedimenti disciplinari mossi da parte del governo contro alcuni dei 1128 accademici che avevano firmato la petizione per promuovere la pace tra Turchia e Pkk. A gennaio ne erano stati già arrestati 12, con l’accusa di insultare lo stato e di diffondere tra la popolazione una propaganda terroristica.
Questa serie di attentati, che sta turbando il paese e colpendo vittime innocenti, avviene in un contesto precario, dove la democrazia vacilla e l’opposizione al governo di Erdoğan, eletto nuovamente lo scorso novembre con maggioranza assoluta, diviene sempre più complicata e rischiosa. Ambigua è anche la posizione del leader turco nei rapporti con Daesh (Isis); posizione che varia dai sospetti di complicità alle più recenti operazioni militari in Siria in accordo con Washington. Dopo l’allarmante ricerca della Columbia University, da cui emergeva la pesante accusa di collaborazione con i jihadisti in aiuti tecnici, logistici e sanitari, la politica estera del governo turco sembra essere radicalmente cambiata, al punto che c’è chi tiene in considerazione proprio la pista dell’estremismo islamico anche riguardo al violento attentato di domenica.
Oltre all’enigma delle responsabilità, c’è poi il caso dell’avvertimento apparso sul sito dell’ambasciata americana di Ankara l’11 marzo, che suggeriva a tutti i cittadini statunitensi di non avvicinarsi alla zona del centro dove si trovano i palazzi governativi, perché presente il rischio di attentati imminenti. Si tratta di uno dei cosiddetti “Traveling Warning”, dei messaggi di sicurezza indirizzati ai turisti americani che si trovano in viaggio in zone ritenute a rischio. Ciò che è apparso più strano è stata la precisione dell’avvertimento, che solitamente non si rivolge a uno spazio delimitato, ma a zone più ampie. In realtà, il Dipartimento di Stato americano invia questi ammonimenti con molta frequenza, anche per sospetti vaghi, dunque non è poi così insolito che nella capitale di un paese soggetto a così tanto rischio sia partito questo tipo di allarme.
Se la sicurezza americana questa volta è arrivata in anticipo, l’attentato è un grosso colpo per i servizi segreti turchi, che a posteriori accusano con facilità i gruppi armati curdi, ma di fatto non sono riusciti a evitare la tragedia. Per questo, Erdoğan ha dichiarato che da ora la lotta al terrorismo sarà portata avanti con più determinazione.
Possiamo solo auspicarci che la maggiore fermezza annunciata dal presidente non si dimostri essere solo un ulteriore soffocamento delle libertà civili e dei diritti individuali dei cittadini turchi, ma soprattutto del popolo curdo, che per il governo rimane il nemico numero uno.
Rosa Uliassi
Bellissimo articolo!!! e poveri curdi