L’ennesimo provvedimento di chiusura della curva interista a margine dell’ennesimo episodio di discriminazione manifestatosi all’interno di uno stadio appare come la solita reazione a caldo con la quale le Istituzioni sportive cercano, invano, di porre fine ad un problema che più che espressione del tifo violento sembra essere un vero e proprio fenomeno sociale.
Ebbene sì, perché il razzismo e la discriminazione territoriale, che ad onor del vero da anni fanno da sfondo a cori e sfottò in gran parte degli stadi d’Italia, costituiscono oggi piaghe sociali rese ancor più preoccupanti dall’odio e dalla malignità di chi fieramente li condivide a squarcia gola. Fenomeni frutto di un paese incattivito. E sia ben chiaro che quanto appena affermato non è opinione personale di chi scrive. Al contrario, è un recente rapporto del Censis a rivelare un dettaglio seriamente allarmante: l’Italia è descritta come un popolo rancoroso, dove il 63% dei cittadini mostra ostilità verso gli immigrati e dove lo squilibrio tra Nord e Sud è sempre di più motivo di divisione.
E allora, come si vuole combattere un problema ormai radicato nella nostra società attraverso un meccanismo di autodifesa come quello della chiusura degli stadi? L’inadeguatezza di tali provvedimenti mostra la totale impotenza dello Stato di fronte alla avanzata inarrestabile del fenomeno. La chiusura delle curve penalizza le famiglie, i tifosi appassionati, gli abbonati, coloro che allo stadio ci vanno per sostenere sportivamente la propria squadra e per vivere quelle emozioni che solo il calcio sa regalare. Parimenti, la proposta del Governo secondo la quale le società di calcio, che già versano annualmente nelle casse dello Stato ingenti somme di denaro in termini di imposte e tasse e che già sono responsabili della sicurezza interna delle proprie strutture, dovrebbero contribuire economicamente alla sicurezza esterna assicurata dall’impiego di un numero consistente di forze dell’ordine, appare come l’ennesimo tentativo dello Stato di scaricare la responsabilità sui club di Serie A. In altre parole, invece che affrontare il problema di petto ed individuarne concretamente le basi, si sceglie la solita strada dei provvedimenti repressivi, quali militarizzazione degli stadi, Daspo, inasprimento delle pene, multe alle società in virtù della discutibile responsabilità oggettiva (può una società di calcio veramente controllare tutti i comportamenti verbali dei tifosi che entrano allo stadio?). Tali provvedimenti risultano parzialmente in linea con quella ostilità individuata dal Censis, quella voglia di individuare il colpevole a tutti i costi, di vederlo pagare per gli errori commessi, come se il vero nodo della questione fosse il singolo tifoso violento e razzista e non il diffuso sentimento di odio e cattiveria che spopola nel nostro Paese.
Perché, al contrario, non investire sulla sensibilizzazione della diversità? Avviare una grande campagna mediatica che veda impegnati in prima linea tutti i club e che li spinga a prendere una netta posizione contro l’odio razziale o territoriale. Fare in modo che i calciatori, osannati dalle curve e spesso visti come modello di comportamento e di vita, trasmettano un esempio positivo promuovendo i valori della diversità e della sportività. Ma anche favorire la ristrutturazione degli impianti sportivi, rendendoli più agevoli e meno fatiscenti, avvicinando piuttosto gli spalti al terreno di gioco, di modo che le frange estreme delle tifoserie abbiano più difficoltà a mostrare il proprio odio e la propria violenza. Stimolare incontri costruttivi tra le società di calcio e le tifoserie al fine di consentire a queste ultime di mostrare il loro pieno appoggio al tema attraverso coreografie e iniziative cofinanziate dai club.
A tal proposito, ben venga l’iniziativa di istituire un tavolo della legalità, al quale partecipino club, istituzioni, testate giornalistiche, associazioni. È questo un modo per dare il via ad una sorta di rivoluzione culturale, che deve anche passare per le scuole calcio e le associazioni sportive, le quali devono essere messe in condizione di favorire la sensibilizzazione del tema ai ragazzi che ne sono parte e che, un giorno, saranno in prima linea allo stadio per seguire la partita della propria squadra. Certo, tutti questi risultati risulteranno difficili da raggiungere finché il nostro Ministro dell’Interno, lo stesso che predica la repressione ma non la chiusura delle curve, si farà immortalare mentre stringe la mano ai più famosi capi ultrà.
E basta con la solita ed ormai noiosa allusione al modello Thatcher. Quel modello che finiva per equiparare i tifosi a mandrie di animali rinchiusi in settori talmente piccoli da far mancare l’aria. Quello che utilizzava la sanzione penale come strumento per incutere timore in coloro che si recavano allo stadio, impedendogli di godersi una partita di calcio. Quello che vedeva la repressione come unica soluzione al problema degli hooligans e che a tale repressione dava esecuzione sulla base di un sistema totalmente inquisitorio.
Insomma, il problema degli episodi discriminatori, frutto dell’incattivimento generale del popolo tricolore, non può di certo essere risolto attraverso un provvedimento come la chiusura degli stadi, che rischierebbe di avere un effetto di carattere temporaneo, o meglio, settimanale. È piuttosto un tema che va affrontato alla base con strumenti idonei che favoriscano la comunicazione e la sensibilità. Seguendo tale strada il ricorso allo strumento repressivo potrebbe diventare pressoché superfluo, considerando che le frange violente e gli odiatori finiranno per eliminarsi da soli, rendendo di nuovo lo stadio di calcio quello che è: un luogo dove lo sport si esprime nella pienezza della sua funzione sociale, promuovendo i valori educativi e formativi ad esso sottesi.
Amedeo Polichetti
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