Tante e diverse sono le figure caratteristiche della cultura partenopea: alcune teatrali,  come Pulcinella; altre eroiche, più di tutti Masaniello; altre ancora religiose, il patrono San Gennaro; e ancora e ancora, tra le quali vale la pena ricordare quella degli scugnizzi.

Il termine “scugnizzo” venne utilizzato per le prime volte alla fine dell’800, quando Ferdinando Russo lo prese per descrivere i ragazzi protagonisti dei suoi sonetti; anche se le sue origini pare risalgano al periodo successivo all’unificazione d’Italia. Il termine deriva dal verbo “scugnare”, “scalfire”. Ciò che veniva scalfito era una trottola di legno dotata di una punta di ferro, il perno sul quale la trottola girava; questo era il gioco preferito dei ragazzini “‘e miez’a via”.  Lo scugnizzo, infatti, era un bambino o un adolescente che, non avendo dimora, viveva per strada, vestito di stracci, e si occupava da solo del proprio sostentamento: rubando e/o facendo affari con i “grandi” della malavita napoletana.

Nonostante però l’illegalità che contraddistingueva la vita degli scugnizzi, questi hanno sempre destato simpatia nella cultura popolare e per questo il loro stile di vita e le loro storie sono diventate d’ispirazione per molti film, come L’uomo scugnizzo del 1938, o Sciuscià del 1946; di questo, il protagonista è lo scugnizzo dell’epoca bellica, scavato dalla fame, ma furbissimo.  Proprio in alcune vicende storiche gli scugnizzi si rivelarono fondamentali, una fra tutte l’insurrezione popolare delle Quattro Giornate di Napoli, durante le quali riuscirono a liberare la città dall’oppressione nazifascista.

scugnizzoAncora, molti libri sono dedicati a loro, tra i quali ricordiamo Napoli d’oro e di stracci di Mario Borrelli. Quest’ultimo era un giovane prete che nel periodo del secondo dopoguerra intraprese una singolare avventura: si spogliò della tonaca da prete per travestirsi da scugnizzo e vivere, per diversi mesi, come tale; lo scopo del prete era accaparrarsi rispetto e simpatia dei piccoli abitanti delle strade per riuscire a salvarli offrendo loro una dimora, cibo, abiti, istruzione, lavoretti e soprattutto affetto. Nel corso di questi mesi, Mario Borrelli, riuscì a capire chi erano davvero gli scugnizzi e come e perché da bambini ingenui e indifesi fossero diventati tali. Giunse a distinguerli in due gruppi: i professionisti e i dilettanti. Questi si ritrovano a vivere la vita della strada per diverse ragioni: alcuni hanno famiglie distrutte, altri sono costretti a mantenersi da soli a causa della povertà familiare, altri ancora patologicamente (pur avendo affetto, una famiglia stabile e una buona situazione economica) vengono affascinati da questo modo di vivere, o meglio sopravvivere.

Lo scugnizzo si raggruppa in bande, che diventano, in mancanza di altro, la sua famiglia; ognuna di queste possiede il controllo di una zona della città, che diventa la loro piazza d’affari e la loro “dimora”. Come si suol dire “cas’ e puteca”. Le bande sono organizzate gerarchicamente e, in base al proprio ruolo, ognuno svolge i propri compiti. L’attività che più impegna la vita dello scugnizzo è la ricerca delle cicche di sigarette: da queste estrapolano la rimanenza di tabacco per poi rivenderlo. Lo scugnizzo diventa una figura a metà tra bambino, per la sua giovane età, e uomo, per la già sviluppata esperienza della sopravvivenza; ma in realtà questo fa di lui né un bambino né un uomo.

Nel secondo dopoguerra, lo scugnizzo che abitava i vicoli partenopei era temuto dal resto del popolo, persino dagli adulti, in quanto tutti li riconoscevano per l’illegalità e la violenza delle loro azioni. Mario Borrelli fu uno dei primi che li osservò e li conobbe per ciò che in realtà erano: bambini abbandonati a sé stessi, costretti a vivere in quel modo, e che desideravano solo affetto e un caldo focolare.

Con il passare degli anni il termine “scugnizzo” venne utilizzato nel  linguaggio popolare non più per descrivere lo scugnizzo di cui abbiamo  parlato fin’ora, ma per indicare tutti i bambini che, indistintamente, si incontravano e giocavano nelle strade della città. I bambini che giocavano a calcio nelle piazze, che si rincorrevano e facevano scherzi nei vicoli divennero i nuovi scugnizzi. Fu così che la parola  perse la  sua accezione negativa per essere accostato alle burle, ai giochi e alla vivacità dei bambini napoletani.

Lucia Ciruzzi

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