Un progetto quadriennale, reso possibile dalla collaborazione tra Teatro Stabile di Napoli, Teatro Nazionale e Soprintendenza di Pompei, ha curato la realizzazione di spettacoli teatrali su tema classico, interpretati tra le rovine degli scavi archeologici pompeiani. La scaletta prevede le opere: Orestea, Prometeo, Antigone e Baccanti, con la regia di Luca De Fusco, Massimo Luconi e Andrea De Rosa.
Un’atmosfera surreale e caratteristica, resa dal perfetto connubio tra le spettacolarità del luogo e della pregnanza contenutistica delle realizzazioni, accompagnerà qualunque spettatore voglia provare questa esperienza mimetica, dal 22 giugno al 23 luglio 2017 al Teatro Grande di Pompei con «Cinque capolavori tesi a privilegiare ed esaltare il rapporto tra contenitore e contenuto, tra spazio scenico e narrazione teatrale», come precisa il direttore Luca Del Fusco.
Nei giorni 14, 15 e 16 il teatro ha aperto il suo sipario a le “Baccanti” , tratta dalla tragedia di Euripide, regia di Andrea De Rosa e con Marco Cavicchioli, Cristina Donadio, Ruggero Dondi, Lino Musella, Matthieu Pastore, Irene Petris, Federica Rosellini, Emilio Vacca, Carlotta Viscovo e con le allieve della Scuola del Teatro Stabile di Napoli Marialuisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei.
Forte suggestione è dovuta dalla forza evocatrice del teatro dallo stampo ellenistico, che va ad ospitare un inno alla libertà, alla terra, alla perversione, all’ebrezza e al contempo alla debolezza dell’azione umana.
Dioniso è un uomo con occhi di dio, è quella libertà che spaventa, quella furia che tutti bramano ma che è fin troppo pericolosa.
Dioniso esiste laddove si perde ogni forma di controllo: per lui l’uomo ritorna alla sua primordialità.
Lui è nella sete, nella fame, nel sesso, nella musica, nella danza, nella notte.
C’è chi riesce ad abbandonarsi a lui, senza redini cede all’istinto e sogna una terra dove le baccanti possono danzare follemente, piene di vita, di terra, di respiro e di abbondanza. Ci sono quindi uomini che credono nella sacralità della figura di Dioniso, nato da Semele e da Zeus, portavoce dell’unica verità che narra che l’uomo non può rifiutare la sua natura e che non può restare calmo nella tempesta perché essere troppo saggi non è la reale saggezza.
Penteo, figlio di Agave e di Echione, è il re di Tebe, città dilaniata dai nuovi riti dionisiaci ad opera di folli, che a suo dire fanno ciò che vogliono e si abbandonano alla noncuranza e al piacere smisurato con la sola scusa di operare come tramite di un dio. É un uomo che vuole mettere in pratica i suoi piani, che teme per la sua terra, che cerca di mantenere pace e quiete in un luogo in cui esse sembrano star svanendo, creando nell’istantaneo un rimando a momenti drammatici della nostra storia contemporanea.
Perteo non vede Dioniso, non comprende la potenza e la forza di colui che considera essere un figlio di una menzogna, un bambino nato da umani, gravato dalle storie di una madre bugiarda.
“Guardate la fine di Perteo e imparate a credere” saranno le parole recitate da Cadno, padre di Agave, alla fine di ogni cosa, al castello del Citerone.
“Cos’è la sapienza? Qual è il dono più bello che gli dei danni agli uomini?”
La realtà è che non bisogna conoscere perché ciò di porta ad allontanarci da noi stessi.. felice è chi si è allontanato dai dolori e chi sa trovare la felicità giorno per giorno. Gli uomini si fanno la lotta per il potere, un potere che in realtà non hanno ma a cui aspirano continuamente, folli delle loro ambizioni.
Penteo era un re di una città che aveva già barattato il titolo della sua sovranità, un uomo cieco che solo alla fine, preso dalla curiosità, volle vedere, “ma furono le baccanti a vedere lui”.
Alessia Sicuro