Narcos non è Pablo Escobar. Non è solo, per quanto superlativa, l’interpretazione di Wagner Moura. La serie Originale Netflix ha deciso di raccontare un universo più grande, in grado di trascendere la spirale biografica del singolo personaggio.
Stiamo parlando dell’universo espanso del narcotraffico latinoamericano, passato da Medellin a Cali, cartello già sapientemente inserito nel corso della seconda stagione e che sarà assoluto protagonista nella terza.
La storia del più grande trafficante di ogni tempo si è esaurita, (in)comprensibilmente, in sole venti puntate, una narrazione certamente di ottimo livello che ha saputo miscelare il documentario con il dramma e la letteratura spionistica con punte di crime grazie ad interpreti icastici e ben diretti.
Chris Brancato, uno dei creatori della serie, prima di redigere lo script e scegliere gli attori, ha ammesso di aver intervistato approfonditamente i veri protagonisti di quella storia, i veri Javier Pena e Steve Murphy, oggi, canuti agenti in pensione dalla carriera invidiabile ma anche costellata da indicibili sacrifici. Il frutto di questa discesa etnografica, di queste testimonianze che ancora persistono come marchi indelebili nella mente dei protagonisti, ha permesso la creazione di un buon prodotto che ha saputo raccontare e volutamente romanzare quegli anni oscuri per la Colombia, ma particolarmente abbacinanti per Escobar e tutto il narcotraffico.
Non che prima di Narcos le trasposizione di Escobar lesinassero, certamente, basti pensare alla serie El Patron del Mal, produzione colombiana molto fedele ai fatti, che descrive il capo della droga nel modo più turpe e spietato possibile privandolo di un qualsiasi abbozzo di umanità e rettitudine. Cosa che invece non ritroviamo in Narcos, dove il narcotrafficante è dipinto sì, come un uomo efferato e violento, ma anche emotivo, vittima di turbe paranoico-comportamentali rintracciabili nella sua difficile infanzia.
È come se in Narcos si scavasse in cerca di una spiegazione a tutto quel male, a tutto quel sangue. Si condanna la condotta criminale, ma si sviscera nel ventre della biografie dei protagonisti, in cerca di un’oncia di moralità, o quanto meno una parvenza di senso, per le abiezioni di cui Escobar e i suoi uomini si son macchiati.
Nella serie Netflix, insomma, l’accento viene posto – anche – sulle qualità umane e le virtù familiari del protagonista, ma soprattutto sulla puerilità, sul bambino troppo cresciuto, che si presume fosse il soggetto in questione. Soprattutto nel corso della seconda stagione si inizierà a provare empatia verso la sua sorte, una discesa inesorabile che terminerà con il naufragio della sua carriera criminale e della sua vita (e no, non è uno spoiler, ma storia colombiana).
Qualche anno dopo, ecco la trasposizione cinematografica più vicina a Narcos: Escobar – Paradise Lost con Benicio Del Toro nei panni del patron. In questo caso, il point of view della narrazione è quello di uno degli uomini di Escobar, che vedrà suo malgrado fino a che punto è disposto a spingersi il criminale per veder realizzati i suoi scopi. Ci viene mostrata solo una sanguinosa parentesi della vita del narcotrafficante, dall’esterno, e qui, forse, sono accostate nel modo migliore le due anime del protagonista: quella violenta e sanguinaria, e quella fatta di rarefatta umanità dettata dall’attaccamento alla famiglia e alla religione (ma sul legame Escobar-Religione ci vorrebbe un articolo a parte).
La figura di Escobar in Paradise Lost ha però un che di patetico: è un criminale di successo ma anche tremendamente goffo ed esagerato. In Narcos, invece, la sua figura è forse eccessivamente mitizzata, dotata di un’ipertrofica lascivia, studiatamente istrionica (si pensi alle battute ad effetto e alla personalità che gli hanno accluso), tanto dal voler tifare per lui e non per gli agenti della DEA che gli danno la caccia. E questo è un male.
Narcos è quindi una serie riuscita, ma anche molto decompressa, che manca di un ritmo univoco dato che vive di repentine accelerazioni e improvvisi rallentamenti.
Nella prima stagione si racconta di un periodo molto lungo della sua carriera criminale, dalla sua ascesa a Re della Droga alla creazione della prigione Catedral e il suo bizzarro e ricreativo internamento. Il tutto intermezzato dai racconti della voce fuoricampo di Boyd Hoolbrok, che liquida con qualche foto e poche parole interi anni di vita del protagonista. Mentre la seconda stagione indugia sulla sua latitanza, sulle sue fughe, e qui il ritmo diventa molto più compassato, lento come un sistema di gocciolamento, dove le gocce sono i passi in avanti della storia. Così come il lato documentaristico nella seconda stagione è improvvisamente messo da parte.
Ecco, forse si poteva gestire meglio la storia di Escobar, esisteva senz’altro il materiale per impegnare Wagner Moura almeno per tre-quattro stagioni e dare dignità ad ogni singola pagina di cronaca di quegli anni. Ma i creatori hanno evidentemente deciso diversamente (forse non si aspettavano l’importante successo della serie). Ora c’è l’esame più impegnativo, un cambio repentino di protagonisti. Sì, perché oltre a Escobar, non ci saranno nemmeno Boyd Holbrook e Pedro Pascal, gli attori che hanno interpretato Muprhy e Pena, coloro cioè che diedero la caccia al criminale. Il palcoscenico sarà tutto per il “Cartel de Cali”: Pacho, Gilberto, Don Berna e l’esiliata Judy Moncada. Un’eredità pesante, che nella realtà si è rivelata troppo gravosa. Nella trasposizione, beh, si vedrà.
Enrico Ciccarelli