Ci sono temi in cui appare molto semplice demonizzare il singolo per semplificare il generale, guardare dritto senza guardarsi intorno, essere incapaci di contestualizzare obiettivamente. Questo è un po’ il caso del fenomeno indipendentista in Catalogna. Così facendo questo articolo sarebbe infruttuoso e controproducente e farebbe il gioco di chi ha voluto rompere i ponti per il dialogo intraprendendo un braccio di ferro, una stremante sfida da cui escono tutti sconfitti; forse perché l’identità catalana non è un trofeo e forse perché su temi così delicati le istituzioni dovrebbero assicurare una mediazione e un confronto plurale, ma il rapporto Stato-regione si è fatto così insostenibile a causa di un governo centrale che ha chiuso ogni possibile via di dialogo con un conseguente irrigidimento delle istanze indipendentiste e di una parte della classe dirigente catalana che ha approfittato di questa occasione per nascondere le trame di corruzione. Gli scandali, di cui il caso del 3% è solo uno dei tanti, affondano inevitabilmente le radici nei ventitré anni consecutivi di governo regionale di Jordi Pujol, che lo coinvolgono da vicino insieme alla sua famiglia e al suo partito, Convergéncia. Ma andiamo con ordine.
Se è vero che le carte costituzionali devono essere svecchiate e aggiornate per interpretare una realtà in mutamento è vero anche che queste modifiche devono avvenire in maniera condivisa e attraverso percorsi di confronto. Non si possono ignorare le istanze catalaniste in quanto rivendicazioni identitarie ma non si può neanche sovvertire un ordine democratico sancito da una carta fondamentale approvata dagli stessi cittadini catalani. Fino a quando c’è stato ascolto reciproco, le parti sono arrivate a convergere su soluzioni unitarie: durante il primo governo Zapatero si è arrivati a un importante compromesso, la riforma dello Statuto di Autonomia, approvato nel 2006. È stato un documento che è riuscito a raccogliere un ampio consenso: nel Parlamento catalano, in quello nazionale e infine attraverso referendum con il 74% dei consensi. Questo statuto riconosceva un’unicità della regione catalana attribuendole un’identità culturale e linguistica facendo riferimento alla nazionalità, rimanendo comunque nel quadro istituzionale spagnolo. Era questo lo spiraglio per quel sistema federalista plurinazionale che in molti trovavano opportuna come soluzione.
Qui entra in campo il Tribunale Costituzionale, chiamato in causa dal Partito Popolare che ritiene il testo incostituzionale. Una sentenza che tarda ad arrivare ma quando, nel 2010, viene resa pubblica, e il Tribunale dichiara quattordici articoli incostituzionali, lo scenario cambia: viene convocato immediatamente un grande corteo con lo slogan Som una nació, siamo una nazione, cui partecipano un milione di cittadini. Una rivendicazione della realtà nazionale della Catalogna. Da qui in poi la degenerazione accelera notevolmente con l’elezione di Rajoy premier, inizia la sfida con Artur Mas, presidente della Generalitat. Dopo l’ennesimo no al confronto da parte del PP, questa volta al Patto fiscale proposto da Mas, quello che era stato nel 2010 un corteo per una “nació” nel 2012 diventa una mobilitazione per un “estat” questa volta con lo slogan Nou estat de Europa, il confine è decisivo. Da qui in poi l’indipendentismo assume un carattere di rottura deciso.
Artur Mas e Mariano Rajoy non cercano il dialogo: il primo convoca le consultazioni per un referendum popolare per l’indipendenza, il secondo si aggrappa alla Costituzione ricorrendo come nel 2006 al Tribunale. Questa volta la sentenza arriva in tempi record e sospende il referendum. Da una parte chi si fa paladino del “derecho a decidir”, il diritto di decidere dei cittadini catalani, dall’altra invece chi lo fa impugnando la carta costituzionale. Mas decide comunque di celebrare il referendum attraverso una via alternativa, cambiando il nome “consultazione” in “processo partecipativo”. Alta tensione. Il 9 novembre 2014 si reca alle urne solo il 37% dei cittadini, un cittadino su tre è andato a votare per la Catalogna indipendente. Una sconfitta per Mas che non molla e convoca le elezioni anticipate per settembre.
L’obiettivo questa volta è ottenere un mandato dei cittadini per iniziare un processo unilaterale per la proclamazione della repubblica catalana. Convergéncia, dopo lo scioglimento di CiU, decide di fare un unico listone indipendentista trasversale da destra a sinistra insieme a ERC, sinistra repubblicana e a vari indipenednti: Junts pel Sí (Uniti per il Sì), il cui capolista è Romeva, l’ex-europarlamentare della sinistra ecologista. Alle elezioni di settembre la posta in gioco era molto alta e i cittadini catalani questo lo sapevano bene facendo registrare una crescita dell’affluenza del 9%. Mas voleva le elezioni plebiscitarie ma i risultati mostrano che la società catalana è divisa: le forze indipendiste in totale hanno raggiunto il 47,7% dei voti e Junts pel Sí festeggia perché in Parlamento la maggioranza di seggi ci sarebbe.
Qui entra in campo un nuovo fattore che in queste ultime settimane tanto ha fatto penare Mas: la formazione di estrema sinistra anticapitalista e indipendentista, la CUP che con dieci seggi è l’ago della bilancia per la possibile formazione di un governo. In quest’ultimo mese le relazioni tra i due gruppi sono state intense e sebbene non abbiano portato ad un accordo sul nome del nuovo presidente (i due tentativi di Mas sono falliti), hanno raggiunto un accordo nella votazione della dichiarazione per intraprendere il processo di indipendenza e progressiva disconnessione dalle istituzioni spagnole.
Questo accadeva lunedì 9 novembre quando, in un’aula fin troppo sobria e silenziosa, la proposta veniva votata da 72 consiglieri contro 63, dove l’unica nota di colore sono state le bandiere spagnole esposte dal PP in segno di protesta, tra gli applausi catalanisti. Anche in questo caso e in maniera altrettando decisa il Tribunale Costituzionale ha immediatamente invalidato la dichiarazione su ricorso del Governo mercoledì 11. Si fa riferimento all’articolo 94 della riforma del tribunale del PP che obbligherebbe, in caso di disobbedienza, all’immediata sospensione delle cariche pubbliche incriminate, da Artur Mas a Carme Forcadell, presidente del Parlamento catalano, ma anche tutti di componenti della giunta regionale ancora in carica e dell’Ufficio di Presidenza per un totale di ventuno incarichi.
Adesso Mas si ritrova con non pochi problemi: un partito sconvolto dalla corruzione, l’urgenza di scendere a patti con la CUP entro il 10 gennaio, gli avvertimenti da parte del governo e del Tribunale e per ultimo le elezioni politiche di dicembre dove l’esperimento Junts pel Sí non si rinnoverà vista la rinuncia di ERC.
Mentre le trattative per l’investitura in Catalogna proseguono, la Spagna tutta si prepara ad affrontare una campagna elettorale che vedrà prevalere questo tema a scapito di molti altri. All’indomani del 20 dicembre si profilerà un nuovo scenario, e l’unica soluzione per risolvere questa questione di stato è attraverso il confronto, perché non c’è una maggioranza netta che in Catalogna voglia l’una o l’altra cosa e qualsiasi decisione unilaterale creerebbe più divisione di quanta non ce ne sia già.
Giacomo Rosso