Il triplice suono che fuoriesce dal fischietto del direttore di gara La Penna si propaga all’interno del Bentegodi. Cala il silenzio dopo appena trenta secondi trascorsi dal gol di Cesar, che ha reso la sconfitta meno pesante, ma di certo non meno amara. La casa dei gialloblu non sarà mai stata gremita come le piazze più importanti d’Italia, ma non è mai stata neanche silenziosa. Pochi ma buoni, si dice in questi casi. Finisce la favola del Chievo, la squadra che secondo pronostici dovrebbe retrocedere ogni anno e che alla fine riesce sempre a salvarsi, questa volta si arrende e cede il passo. La prima ed ultima volta che è accaduto, undici anni fa, probabilmente ha fatto più male: scontro diretto per la salvezza all’ultima giornata contro il Catania (giocato a Bologna), deciso da Rossini e Minelli. I Clivensi, i quali in quella stessa stagione si erano regalati il sogno di aver quasi visto il traguardo dell’Europa, sfumato per un doppio preliminare (prima Champions e poi UEFA), uscirono comunque tra gli applausi dei propri tifosi. Fu un solo anno di “inferno” quello, perché la gioia della A arrivò nuovamente dodici mesi dopo. Adesso, invece, considerando anche la vicenda giudiziaria che coinvolge il presidente Campedelli, non sappiamo esattamente cosa succederà da qui in avanti e che futuro avrà la società.
Al di là di quel che accadrà nelle aule dei tribunali, il miracolo del Chievo resta un qualcosa di assolutamente eccezionale, aggettivo che in questo caso va interpretato senza toni trionfalistici, ma nella sua accezione più letterale, come qualcosa «che fa eccezione». Guardiamoci intorno. Qual è il futuro del calcio o più in generale dello sport europeo? Abbiamo creato un sistema sportivo oligarchico, in cui la vittoria è appannaggio di poche squadre. In Italia, al di là dei sette scudetti consecutivi della Juventus che diventeranno otto, negli ultimi ventotto campionati hanno vinto cinque squadre, tra cui Roma e Lazio una sola volta a testa, mentre un titolo, quello revocato alla Juve in seguito all’inchiesta Calciopoli. non è attualmente assegnato. Questo vuol dire che ben 25 titoli sono stati vinti da tre sole squadre (13 Juventus, 7 Milan, 5 Inter), vale a dire l’89,28%. Se volgiamo lo sguardo agli altri grandi campionati europei, la situazione non è molto diversa in Ligue 1, Liga spagnola o Bundesliga, anche se quest’ultimo ha una divisione dei diritti tv distribuita equamente. L’unica eccezione è la Premier League, che comunque resta appannaggio delle squadre più facoltose. Lo stesso Leicester di Claudio Ranieri, che ha trionfato nel 2016, aveva un fatturato di 148 milioni di euro, il ventesimo più alto a livello europeoe di poco inferiore all’Inter, quarta squadra italiana per ricavi in quella stagione. Questo per far comprendere l’abisso che intercorre tra le cosiddette squadre della media borghesia inglese e quella italiana, che faticano nella maggior parte dei casi a superare gli 80 milioni di introiti; nella scorsa stagioneben dodici squadresotto questa soglia, con la SPAL fanalino di coda con 26,2 milioni di ricavi complessivi, meno dello stipendio di Cristiano Ronaldo, per fare un confronto brutale.
La competitività resta il problema più importante dei campionati nazionali, in cui spesso e volentieri la maggioranza delle squadre non ha la minima possibilità di competere per vincere il titolo. E non per la stagione corrente, né quella successiva e né ancora per il prossimo decennio. Ma a vita. Con queste distanze siderali ci sono squadre che non vinceranno mai – alcune mai più – un singolo campionato; e parliamo anche di società storiche del nostro calcio come Genoa, Sampdoria, Fiorentina o Bologna. A meno che non arrivi lo sceicco di turno a investire il miliardino – e non sappiamo perché dovrebbe venire, dal momento che certezze non ve ne sono (chiedere a Pallotta) –, è impossibile pensare che queste società possano competere. Ed ecco che iniziano dunque ad albergare i primi tentativi dei super team europei di creare una competizione chiusa – la Superlega– per staccarsi, forse per sempre, da club che vengono considerati solo “un peso” per la crescita. I gialloblu hanno incassato negli ultimi quattro anni in media 1.8 milioni di euro di ricavi da stadio, il solo derby di Milano del marzo scorso ha toccato quota 5.7 milioni di incassi, più del triplo.
In una situazione di questo tipo è impossibile non pensare che al fenomeno Chievo Verona come qualcosa di davvero controcorrente, che è andato in netto contrasto con l’andamento del mondo del calcio. Pensare che un quartiere di soli 3.500 abitanti possa, nonostante le disparità economiche evidenti e i limiti ancor di più, restare stabilmente in Serie A per quasi diciassette anni dopo essere partito dalla terza categoria dà l’idea dell’unicità del fenomeno, almeno per il territorio italiano. Soprattutto quando squadre, anche più blasonate, di città più importanti faticano a costruirsi una solidità. La formazione composta da Lupatelli tra i pali; Moro, D’Angelo, D’Anna e Lanna in difesa; Luciano, Corini, Perrotta e Manfredini a centrocampo; Corradi e Marazzina davanti, nel classico 4-4-2 che avremmo poi imparato a conoscere di Gigi Delneri, è divenuta famosa, come quei film di serie b a basso budget che sono dei piccoli gioielli. Così come conosciuto e rispettato è divenuto il futuro capitano clivense, Sergio Pellissier, che rappresenta lo stereotipo che non stanca mai del bomber di periferia che partendo dalla gavetta riesce a tirare fuori una carriera rispettabile, e nel suo piccolo migliorabile. Oggi è il terzo marcatore in attività più prolifico della Serie A ed è entrato a far parte della ristretta cerchia dei giocatori che hanno segnato 100 reti nel massimo campionato (112).
Della particolarità del Chievo in questi anni non si è mai parlato, e quando lo si è fatto non è stato dato il giusto peso alla vicenda, né sottolineati i grandi meriti della proprietà e della dirigenza. Sul web viene estrapolata solo la parte ironica, riguardante i pochi tifosi presenti allo stadio o alle classiche partite da 0-0, che addirittura sono divenute una pagina Facebook (adesso non più attiva).
Che questa stagione potesse rappresentare la fine di un’era lo avevamo intuito anche in estate, con il filone dell’inchiesta giudiziariaa carico del presidente Campedelli, reo di aver gonfiato i bilanci con delle plusvalenze fittizie negli ultimi quattro anni. Un cifra di circa 60 milioniche avrebbe aiutato il Chievo a compensare gli elevati costi di gestione e chiudere i bilanci in pareggio.
Un reato sicuramente grave, ma che non può e non deve tracciare una linea per intero sui risultati che la squadra è riuscita a portare a termine nel corso di queste diciassette stagioni. Non sarebbe né giusto né intellettualmente onesto.
Michele Di Mauro