L’ipotesi Superlega è scongiurata. Per adesso. L’UEFA è riuscita a tenere a freno i top club europei che sentivano il bisogno di un campionato chiuso, con una riforma che accontenta i ricchi e scontenta i poveri. I ricchi sono i campionati come quello italiano, ad esempio, che ormai sono certi di avere sempre quattro squadre da portare in Champions League. I poveri sono i campionati delle federazioni che pesano poco a livello di importanza televisiva ma che, d’altra parte, sono fondamentali come appoggio politico per chi aspira a diventare (e restare) il “capo” del calcio europeo. Basterà questo a salvare la struttura del calcio europeo così come la conosciamo oggi? Probabilmente, no.

Il Fair Play Finanziario voluto da Platini nel 2009 ha aiutato il calcio europeo ad uscire dalla crisi economica. Il concetto era molto semplice sin dall’inizio: rendere le società indipendenti. Ergo, si spende solo in base a quanto si guadagna, altrimenti si rischiano sanzioni. Da questo punto di vista, l’obiettivo è stato raggiunto. I debiti dei club sono scesi dai 1,6 miliardi del 2012 ai 320 milioni del 2016, i pagamenti ritardati sono passati dai 57 milioni di euro del 2011 ai 5 milioni del 2016 e i pagamenti contestati (o in ritardo) nei confronti dei dipendenti, dal 72% del 2014 al 37% del 2016.

Il problema del FFP è che ha accentuato ancor di più la differenza tra i club che posseggono molte risorse e chi invece non le ha, rendendo i club “piccoli” di fatto dei club satellite. E considerando la mancanza di regole che possano equilibrare il tutto – Premier League a parte – la competitività risulta notevolmente compromessa. E a questo punto la domanda che ci si inizia a porre è: ha ancora senso giocare i campionati nazionali?

campionati
Rumenigge presidente dell’ECA (European Club Association)

Risultati scontati. Sempre le stesse squadre che trionfano. Sessioni di mercato che aumentano la forbice tra grandi e piccole.

Nei mesi scorsi Gasperini aveva rilasciato queste dichiarazioni: “[…] bisognerebbe fare un campionato europeo tra le migliori di ogni Paese e le altre nei campionati nazionali. Così non ha più senso. La disparità economica è enorme, superiore al passato. Pensi un po’: Inter e Juve arrivano, ci tolgono i migliori e si sistemano, noi ci indeboliamo. Come competere? La prima che fa 100 punti e le ultime tre così in basso non sono un bene per nessuno”. E in effetti ha ragione, basti pensare alle perdite che ha subito la sua Atalanta: Gagliardini, Caldara (si aggregherà alla Juve l’anno prossimo), Kessie, Conti. Le possibilità che hanno questi club di competere e crescere sono vicine allo zero.

Parliamoci chiaro, il calcio è sempre stato uno sport oligarchico. L’ingresso, poi, nel sistema di sponsor e televisioni ha fatto il resto. In questo millennio sono stati disputati un totale di 85 campionati nelle principali cinque federazioni (Francia, Germania, Inghilterra, Italia e Spagna) e l’80% di essi (68) è stato vinto da 12 club: Arsenal, Barcellona, Bayern Monaco, Chelsea, Inter, Juventus, Lione, Manchester City, Manchester United, Milan, PSG, Real Madrid. Negli ultimi cinque anni, però, con l’effetto FFP questo numero è arrivato all’88%, lasciando solo tre superstiti: Atletico Madrid, Leicester, Monaco. Ed è destinato ad aumentare.

In Italia, naturalmente, non abbiamo fatto eccezione. Complice una ripartizione dei diritti televisiva poco equilibrata e l’incapacità delle altre di innovarsi, abbiamo assistito ad un dominio della Juventus. Sei scudetti consecutivi che potrebbero diventare tranquillamente sette, otto, se non si troveranno dei competitor all’altezza. Cosa che ad oggi è avvenuta solo nel 2012 con il Milan, considerando l’impossibilità da parte di Roma e Napoli di poter arrivare alle cifre che la squadra bianconera ha la possibilità di sborsare oggi. Sia chiaro, la Juventus ha degli evidenti meriti in tutto questo, soprattutto perché se ci guardiamo intorno – anche al di fuori del panorama calcistico – e osserviamo l’immobilismo nel quale riversano i nostri settori industriali, non era facile andare controcorrente. Fatto sta che per le due sopracitate è quasi impossibile oggi competere con una società che sul mercato vale più della loro somma: 948 milioni di dollari (379 il Napoli e 569 la Roma) contro 1,26 miliardi di dollari. Nella singola stagione è chiaro che si possa anche spuntarla ma nel lungo periodo è davvero complicato competere con una società che ha la forza di acquistare anche i migliori giocatori delle dirette avversarie (Gonzalo Higuaìn e Miralem Pjanic).

Cosa fare, dunque? Abbiamo di fronte due possibilità.

La prima è creare un sistema che favorisca la competitività, aiutando chi ha meno e arginando chi ha di più. Il nuovo presidente della UEFA Aleksander Čeferin negli ultimi giorni ha parlato di salary cap, luxury tax e rose ristrette, regole che non sono nuove per chi segue gli sport americani. Il problema sostanziale è che l’Europa non essendo un paese ha diverse monete, diverse fiscalità e diverse federazioni che, per quanto a livello gerarchico abbiano la UEFA come riferimento unico continentale, sono indipendenti e dunque libere di agire come meglio credono per quanto riguarda le strutture interne. La Premier League è l’unica ad adottare un sistema meritocratico e paritario in termini economici, e i feedback si possono riassumere in una cifra: 5,4 miliardi di euro dai diritti tv (nazionali ed internazionali).

La seconda è la Superlega, quella a cui tanto auspica ad esempio il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, che si è dichiarato contrario alla nuova struttura della Champions League. Parliamoci chiaramente, esiste uno spazio d’intrattenimento / sportivo / economico – mettetela nei termini che più vi aggradano – che in Europa non viene sfruttato. Una Lega chiusa con le migliori squadre e giocatori del mondo è un’idea che potrebbe stuzzicare non solo gli appassionati – meno i più tradizionalisti – ma anche i proprietari stessi dei club, che vedrebbero crescere i loro ricavi a dismisura. Creare una sorta di NFL calcistica – come l’ha definita Andrea Agnelli – potrebbe giovare sia ai suddetti club che alle piccole che diventerebbero protagoniste dei campionati nazionali, libere dalla cannibalizzazione delle grandi.

Certo, il giro di soldi sarebbe inferiore rispetto a quello attuale ma anche i costi sarebbero notevolmente ridotti. E qui bisognerebbe porsi due domande (e lo ha fatto Calcio&Finanza): sta meglio una azienda  che fattura 100 ed è in perdita o una che fattura 10 ma è in equilibrio e magari guadagna? Meglio un campionato che vale 100 ed è fortemente sbilanciato con molte partite scontate o uno che vale 10 ma è altamente competitivo e ricco di pathos?

I problemi principali che riscontra l’ECA per organizzare una Superlega (come si deve)  sono due:

  • convincere i club nazionali a lasciare i propri campionati. Fino ad ora si è sempre parlato di una Superlega con squadre che avrebbero mantenuto il piede in due staffe, restando anche nei rispettivi campionati. Questo è dovuto al fatto che queste società sono da sempre state abituate a vincere e riunirsi all’interno di una competizione con le migliori al mondo che mette in palio un solo trofeo, potrebbe portare a lunghi periodi di siccità in bacheca;
  • i club inglesi. Le top squadre di Premier League (Arsenal, Chelsea, Liverpool, Man. City e Utd, Tottenham) riescono a trarre dei profitti tali dal proprio campionato che, al momento, non avrebbero reali guadagni ad entrare in una Superlega. Inoltre, l’uscita dal Regno Unito dall’Unione Europea li allontana ancora di più. E se da una parte questo potrebbe aiutare a creare una Superlega solo tra squadre della zona-Euro, è chiaro che dall’altra non avere i club più importanti del campionato più seguito al mondo darebbe meno appeal al tutto.

Per adesso la seconda possibilità sembra sia stata allontanata ma non è detto che in futuro le cose non possano cambiare nuovamente.

Michele Di Mauro

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