I 100 giorni che vanno dal 6 aprile alla metà di giugno del 1994 saranno sempre ricordati tra i più sanguinosi del Novecento africano. In questo periodo di tempo si è consumato il genocidio del Ruanda, che ha mietuto circa 800.000 vittime.
Le motivazioni del conflitto possono essere identificate nell’odio etnico tra Hutu e Tutsi e nei giochi di potere tra le due fazioni.
In origine la distinzione tra i due gruppi era solo socio-economica: infatti i primi, che rappresentavano la maggioranza della popolazione, erano per lo più poveri agricoltori; i secondi, invece, erano una minoranza più ricca e proprietaria di terre e bestiame. Nonostante ciò, esistevano alcuni nuclei familiari misti e la convivenza era pacifica. Tuttavia, dopo la dominazione belga, che ebbe inizio nella metà degli anni venti del Novecento, la distinzione divenne di tipo etnico, in quanto per i nordeuropei esistevano evidenti differenze fisiche tra i membri dei diversi gruppi, soprattutto per quanto riguardava l’altezza media delle persone: i Tutsi erano molto alti, gli Hutu erano di altezza media e un terzo gruppo, i Twa erano più bassi. I belgi introdussero inoltre delle carte d’identità che identificavano le tre fazioni come gruppi etnici totalmente diversi: così questa distinzione su base etnica rimase radicata nella concezione popolare fino agli anni Novanta, quando andò in scena il terribile genocidio.
Quando i belgi lasciarono il paese, il potere passò in mano ai Tutsi, che erano più ricchi, ma questo equilibrio non era destinato a durare. Infatti nel 1975 Juvénal Habyariama prese il potere con un colpo di stato e fondò il Movimento Nazionale Repubblicano per lo Sviluppo, espressione politica della popolazione Hutu. Così gli Hutu, che rappresentavano circa l’80% della popolazione, estromisero dal potere i Tutsi.
Nel 1990 arrivò in Ruanda dalla vicina Uganda, il Fronte Patriottico Ruandese, formato essenzialmente da Tutsi emigrati, che mise in difficoltà la stabilità politica di Habyariama, dando origine a una vera e propria guerra civile che durò 3 anni.
Il 6 aprile del 1994, l’aereo che trasportava il presidente-dittatore Juvénal Habyarimana fu abbattuto da un missile terra-aria. Tutt’oggi non si è sicuri della paternità dell’iniziativa.
Le fazioni Hutu più vicine al presidente, tramite iniziative della guardia presidenziale, cominciarono il massacro della popolazione Tutsi e di quella parte Hutu imparentata con questi o schierata su posizioni più moderate. Uno degli episodi più cruenti fu sicuramente quello che vide il martirio di 5.000 persone nella chiesa cattolica di Nntrama.
Un ruolo di prima importanza nella vicenda fu ricoperto da Leon Mugesera, che già nel 1992 istigava la popolazione al genocidio. Dopo 24 anni da quei suoi folli discorsi una corte ruandese lo ha condannato per “pubblico incitamento al genocidio, crimini contro l’umanità e incitamento all’odio inter-etnico”.
Un altro crudele protagonista fu il capitano Pascal Simbikangwa, che nel corso del genocidio era a capo dei servizi segreti del Ruanda. Egli si occupò di stilare la lista delle famiglie Tutsu da eliminare, inoltre partecipò alla deplorevole propaganda al genocidio. Egli si rifugiò nell’arcipelago francese di Mayotte, dove fu arrestato nel 2008. In seguito, in Francia, venne accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Nel marzo 2014 venne condannato a 25 anni di carcere, al termine di un processo definito storico dai francesi.
Uno spunto di riflessione importante può partire dal considerare che uno dei motivi che ha dato origine alla distinzione etnica tra gli abitanti del Ruanda è stata la dominazione belga, e quindi ancora una volta si evidenzia il distruttivo intervento europeo in Africa, che esprime quanto sia consistente il debito morale che l’Europa ha nei confronti di questo continente.
Sembra impossibile che siano stati necessari più di 20 anni per dare giustizia alle vittime di questo terribile genocidio: perciò, nell’approcciarsi ad analizzare questa vicenda, sgomento e rabbia sono i sentimenti predominanti; poi, però, accantonando per un istante l’emotività, emerge la soddisfazione di aver ottenuto giustizia, seppur in modo estremamente lento, grazie al lavoro di persone che non hanno mai smesso di credere che fosse importante non far rimanere impunito questo sanguinoso genocidio.
Alessandro Fragola