Il romanzo di Antonio D’Adamo che ha preceduto quello già recensito su questo sito è altrettanto breve e utilizza più o meno lo stesso linguaggio esuberante, e non manca di toccare il punto, profondamente sentito dall’autore, del disagio giovanile. Nonostante ciò, il due lavori non potrebbero essere più diversi: dove “Un comunista in diskoteca” è un lavoro amareggiato ma pieno di speranze, un romanzo politico e sociale, “Tra whiskey e sigarette” presenta un’analisi dell’uomo come bestia irrazionale e crudele, ma anche in balia del proprio destino.
La prima differenza che incontriamo durante lettura sta nei personaggi: in “Un comunista in diskoteca” i vari personaggi ricoprono una parte attiva nella storia e in certi casi vengono analizzati e approfonditi, anche se la storia è narrata dal punto di vista del solo Fidel, mentre in quest’altro lavoro tutta l’azione è svolta da uno solo, e le figure sfocate che condividono la scena con lui non posseggono una vera e propria capacità d’iniziativa, ma semplicemente svolgono un ruolo marginale in funzione del protagonista e narratore. Non per niente, l’intero romanzo risulta apparire come una specie di diario, il diario di una vicenda umana raccontata in tempo reale.
La vicenda umana in questione è una storia surreale di follia e perversione. Il protagonista, dopo essersi brevemente presentato, racconta lucidamente, quasi come fosse la storia di un altro, del suo primo stupro, di quando ha visto in televisione la sua prima vittima, della voglia di fare nuovamente una cosa del genere, di come continui con la sua vita di sempre indisturbato e così via. Solo inconsciamente, e per mezzo di una specie di sogno-allucinazione, sembra capire di meritare una punizione, e in ogni caso riesce abilmente ad evitarla.
Ciò che più di ogni altra cosa caratterizza questo personaggio è forse la sua totale assenza di consapevolezza di sé: nonostante infatti sia sempre perfettamente cosciente nel momento in cui commette le sue atrocità, non appena si rende conto del male che ha fatto rifiuta di ammettere la propria responsabilità, spersonalizzando i suoi crimini e accusando qualcuno o qualcosa che di certo non è lui di aver preso il controllo della sua mente. Nella narrazione, per sottolineare questa spersonalizzazione, all’atto della descrizione dei crimini l’introspezione è quasi nulla, mentre nel momento della presa di coscienza è come se il personaggio torni ad avere la propria razionalità, insomma torni ad essere un animale pensante.
Quasi con leggerezza, questo brevissimo romanzo, forse più un racconto, fornisce un ritratto della condizione umana estremamente pessimista. L’uomo è ridotto allo stato di bestia senza scrupoli, che al momento del pentimento rifiuta di riconoscere la propria natura meschina e accusa a prescindere qualcun altro, senza curarsi che esista o meno. Ciò è confermato dall’ultimo capitolo, quasi a parte rispetto al resto della storia, che funge da estrema giustificazione e quasi vittimizzazione del protagonista come persona con esperienze difficili alle spalle: in realtà, più di ogni altra cosa, questo breve capitolo completa il quadro di disperazione che l’intera narrazione viene a costituire.
Michele Cera