Se vi fosse capitato, la prossima domenica, ma a metà Settecento, di passeggiare per quella parte di pendio, a cavallo tra l’altura di Sant’Elmo e il circondario di Via Toledo, detta Belvedere per la striscia di panorama non interrotto che si stendeva da lassù fino a Forcella – com’è ancora oggi – avreste assistito ad una delle tante processioni cittadine in onore della Madonna Addolorata, allestite nella settimana corrente da una congregazione o una famiglia nobiliare che a quella avessero fatto un voto.
Il rito in questione, «coll’invito del Collegio de’ Teologi napoletani ed intervento della città», avrebbe nello specifico mostrato la riconoscenza del popolo tutto che, implorata la statua lignea della Madonna de’ sette dolori di fermare i terribili terremoti del 1738, custodita nella chiesa omonima, ne era stato salvato.
Alla processione – di per sé nulla di eccezionale – avrebbe sicuramente partecipato la famiglia Carafa di Maddaloni, patrona della più ricca cappella di quella chiesa – recentemente in parte restaurata –, che ospita due splendidi dipinti di Giacomo del Po e stucchi della scuola del Vaccaro. Quando ancora questi erano stucchi tutti dorati, come ci racconta Giuseppe Sigismondo nella sua Descrizione della città di Napoli e suoi borghi (1788), prima della processione la chiesa diveniva però sede di un evento singolare:
nella terza Domenica di Settembre [la casa dei Maddaloni] fa ogni anno […] una solennissima festa con musica sceltissima, facendovi cantare […] nella mattina la Messa a due cori, e Stabat Mater del celebre Pergolesi, che mentre visse fu maestro di musica di questa rispettabilissima Casa.
In effetti forse neanche quest’evento, se non per la supposta ottima qualità delle esecuzioni, doveva essere tanto straordinario, dato che già all’epoca in tutto il mondo si eseguiva il celeberrimo Stabat Mater, che godette di una tanto ampia risonanza da essere persino riciclato da Bach per una sua composizione.
È noto che in gioventù Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736) fosse stato un protetto della famiglia Maddaloni, ma non da essi è
provenuta la commissione per il capolavoro che gli avrebbe dato fama immortale. Al termine della sua parabola artistica, durata soli cinque anni, è la Confraternita dei Cavalieri di San Luigi di Palazzo a richiedergli la composizione di uno Stabat Mater (qui in un’esecuzione molto emozionante) che la leggenda vuole egli aver steso sul letto di morte, quasi un Mozart napoletano ante litteram.
In essa il geniale musicista riesce a compiere una svolta radicale nel modo di concepire la spiritualità religiosa. Lo stile di chiesa fino ad allora stava infatti ancorato al linguaggio osservato, non melodico, proprietà questa del pur drammatico Stabat di Alessandro Scarlatti, commissionato vent’anni prima dalla stessa Confraternita e che quello di Pergolesi doveva sostituire, ammodernando il culto. Complice l’esperienza di teatro, il ventiseienne Jesino riesce a rivedere il senso della sequenza medievale sotto un’accezione più intimamente soggettiva e più vicina, così, al gusto dell’uomo che si affacciava alla contemporaneità.
Pur non rifiutando fughe (vedi il fac ut ardeat cor meum e l’Amen), imitati (come il famosissimo inizio, Stabat mater dolorosa) et similia, Pergolesi riesce ad asservire alla propria ispirazione questi elementi, che fino ad allora erano stati dei noiosi pedaggi da pagare per chi avesse voluto addentrarsi nella scrittura di musica liturgica. Quasi tutti i brani, secondo una maniera modernissima, non introducono immediatamente il corpo polifonico nell’avvicendarsi e l’invilupparsi di parti vocali e strumentali, ma cominciano con una semplice introduzione agli archi della melodia portante, che si caratterizza per un fraseggio innatamente musicale, molto vicino allo stile operistico contemporaneo.
Forse questo aspetto più di altri ha fatto sì che cinquant’anni dopo Padre Martini, patrono peraltro di un giovane Mozart, dell’opera sottolineasse la scomoda somiglianza, nell’accompagnamento e nelle melodie, con l’altro capolavoro del compositore, l’intermezzo comico La serva padrona, il che, a suo dire, non si addiceva allo spirito osservato di una composizione sacra (e non sbagliava del tutto, se si confronta l’inflammatus et accensus con la nota aria stizzoso, mio stizzoso).
L’osservazione però né offuscò la fama di questo capolavoro, né persuase i compositori successivi, imbevuti di Romanticismo, a ritrovare la retta via. Se infatti gettiamo lo sguardo più avanti negli anni, ai capolavori sacri di Rossini, autore pure lui di un colossale Stabat Mater (1842), anche se forse non del tutto di sua mano, e di Verdi (è del 1874 il suo sanguigno Requiem), per non andare troppo lontano, ci accorgiamo che il repertorio ecclesiastico non è più diretta emanazione della Parola biblica ma reinterpretazione in termini soggettivi del senso più intimo del Sacro, cosa che tenterà di impedire il Movimento Ceciliano. Tutto ciò fa di Pergolesi un vero anticipatore, genialmente capace di interpretare come frutti già maturi quelli che ai suoi tempi erano solo i germi di un radicale mutamento culturale.
Antonio Somma