Quando si parla di “Grande Lucania“, si rispolvera una storia poco conosciuta al di fuori dell’area in questione, ma secolare e complessa, che sostiene le aspirazioni di autonomia e le velleità di secessione portate avanti dalla passione e dall’azione dei cittadini di un territorio peculiare, omogeneo dal punto di vista culturale e geografico, ma diviso a livello amministrativo tra l’attuale provincia di Salerno e la regione Basilicata.
Questi attuali confini geografici della Basilicata risultano solo in maniera approssimativa corrispondere a quella che era “Grande Lucania”, un’entità precisamente identificabile attraverso un lungo percorso storico.
Nel corso dei secoli quel territorio fu teatro di scontro e, al tempo stesso, di preziosissimo incontro di civiltà diverse che contribuirono a forgiarne l’identità. Ogni presenza ha lasciato tracce del proprio passaggio, dando vita ad un composto mosaico di arte, cultura e tradizioni.
Ad abitare per primi la Lucania furono gli Enotri (detti anche Itali) e gli Joni, stanziati gli uni sulle coste tirreniche, gli altri su quelle opposte. Dalla fine del VIII secolo a.C. in poi si avviò in Italia la colonizzazione greca, che segnò profondamente il territorio. Intorno alla fine del V secolo i Lucani, popolazione di stirpe osco-sannitica, provenienti dall’Italia centrale e guidati dal mitico Lucus, avanzarono dalle montagne alle zone costiere. Poi, con ondate successive, muovendosi dal Tirreno presero il controllo della parte interna della Basilicata. Si spinsero attraverso le pianure del fiume Sele, all’interno di quella regione che fu poi detta Cilento. Nasceva così, nel corso del IV secolo, la “La Grande Lucania”.
La conquista e la conseguente amministrazione romana preserva grosso modo l’unità del territorio così costituito per numerosi secoli. Mantenutasi pressoché indipendente nonostante conflitti, invasioni e dominazioni anche durante i tumultuosi secoli del tramonto della civiltà antica e dell’epoca medievale, la divisione comincia solo a partire dal basso Medioevo, quando dapprima i Normanni (che si sostituirono ai Longobardi nella dominazione del Mezzogiorno), e poi definitivamente gli Angioini, spezzarono l’unità dell’antica regione lucana, dividendola sommariamente tra territori ionici e tirrenici, per varie ragioni di equilibrio politico-dinastico.
Tutte le successive dominazioni, dagli imperi dell’età moderna fino all’unità d’Italia, conserveranno distrattamente questa scissione, e inoltre non riterranno necessario attribuire ad entrambi i territori di quella regione autonomia amministrativa, di cui invece altre realtà godono e hanno goduto, né valorizzeranno in nessun modo la caratteristica identità lucana e lo sviluppo della regione.
Anche l’amministrazione del Regno dei Savoia e poi della Repubblica Italiana si iscriveranno nel solco dei numerosi predecessori, per altro nel contesto di un deterioramento significativo della situazione economica.
La monarchia e i governi dall’Ottocento al 1945 dimostreranno scarsa attenzione, quando non aperta ostilità, verso l’autonomia e le istanze locali, soprattutto durante il fascismo. Inoltre la politica socio-economica del regno nei confronti della regione lucana e del meridione in generale, che meriterebbero una trattazione vasta ed approfondita, sono stati notoriamente caratterizzati più da ombre che da luci.
Il riconoscimento delle autonomie locali e la promozione di un costruttivo decentramento territoriale presente nella Costituzione repubblicana del 1948, a cui seguì l’istituzione delle Regioni completata compiutamente negli anni successivi, non muta significativamente la situazione, innanzitutto a livello territoriale: ancora oggi la ex “Grande Lucania” si divide tra Campania e Basilicata.
Forse proprio questi secoli di mortificazione, insieme economica e culturale, di una comunità accomunata da un territorio ben determinato da storia e tradizioni uniche, hanno comportato nell’area del Cilento e del Vallo di Diano, oggi in provincia di Salerno, la nascita di un movimento che a più riprese ha preteso il riconoscimento morale ed amministrativo di una antichissima specificità territoriale, declinabile attraverso una forte autonomia, o realizzato compiutamente tramite il ricongiungimento con la controparte lucana in Basilicata, che alcuni sentono come irrinunciabile.
Alcuni, ma quanti? E soprattutto, come? Cerchiamo di rispondere a questi interrogativi ripercorrendo la storia recente del progetto “Grande Lucania”. Il movimento, basato come detto soprattutto su una comune memoria storica e culturale, nasce da un sentimento spontaneo diffusissimo presso comunità locali, che ha covato a lungo sotto la pelle del territorio ma che mai si è tradotto in concreta e rilevante azione politica fino al XXI secolo. È con il costituirsi, a partire dal 2005, di numerosi comitati civici in diversi comuni dell’area che il progetto “Grande Lucania” prende definitivamente forma e sostanza, promosso dall’omonima associazione, coadiuvata da fondazioni culturali e non, ed animata da importanti personalità locali e da numerosi cittadini.
L’associazione e i comitati si danno l’obiettivo di applicare l’articolo 32 della Costituzione per la celebrazione di una discussione pubblica e di referendum popolare, che, in caso di esito positivo, comporterebbe l’agognata secessione e il passaggio alla regione Basilicata dei territori lucani in Campania con il suffragio e la partecipazione dei cittadini. Il referendum avrebbe in realtà valore consultivo, ma il Governo sarebbe obbligato, sentiti i Consigli Regionali interessati, a recepirne gli esiti e ad applicarli mediante un processo legislativo rinforzato.
Tuttavia le amministrazioni comunali che hanno deliberato a favore del quesito referendario da sottoporre ai cittadini per separare il proprio Comune dalla Campania sono state relativamente esigue, non più di una ventina (come riportato dal quotidiano online Onda news), laddove invece i promotori erano ben più ambiziosi: intervistato da La Gazzetta del Mezzogiorno, uno degli ideologi del progetto, il procuratore Raffaele De Dominicis, era infatti arrivato a dichiarare: «Il nostro obiettivo è di coinvolgere almeno un’ottantina di paesi della zona per poi presentare ufficialmente la richiesta di un referendum». Lo stesso De Dominicis, ancora speranzoso, riconosceva nel 2011 che «le adesioni ci sono, ma quelle già acquisite non bastano a giustificare un referendum. Spero che altri decideranno di seguirci.»
Questo non è ad oggi avvenuto, e forse conseguentemente, ma per ragioni in verità imprecisate e attinenti alle dinamiche politiche locali e nazionali, il processo ha conosciuto un pesante rallentamento, fino praticamente ad arenarsi quasi del tutto ormai da diversi anni, caratterizzati tra l’altro dalla volontà dei vari governi di ridurre il numero gli enti locali e di tagliare i fondi destinati al territorio. Solo sporadici, negli ultimi anni, sono stati i tentativi di riportare in auge la “questione lucana”, mai coronati da considerevoli successi.
Ma quella che può sembrare la sconfitta su tutti i fronti di un localismo ritenuto da più parti come esasperato e non più attuale, non è in realtà classificabile come tale: la presenza e il gradimento dei temi posti dall’iniziativa sul territorio è ancora forte, appoggiata da numerosi sindaci, ed espressione di una volontà, più culturale che politica, che batte ancora nei cuori delle popolazioni del Cilento e del Vallo di Diano. Questa volontà di autodeterminarsi e di rappresentarsi come realtà territoriale e culturale specifica non è sopita, e non potrà esserlo.
Molto spesso proprio istanze simili, e il caso lucano non fa certo eccezione, incubano ed esprimono disagi e difficoltà di intere popolazioni che vogliono contare di più in termini di democrazia e di valorizzazione e distribuzione di risorse, che semplicemente desiderano una maggiore autonomia e riconoscimento.
Quel riconoscimento, prima morale, e poi amministrativo ed economico, delle proprie caratteristiche e peculiarità a cui si faceva riferimento qualche riga più in alto, imprescindibile tanto per la tenuta democratica quanto per l’unità territoriale di un moderno paese europeo. Elementi di strettissima attualità in un continente sempre più attraversato da forti aspirazioni indipendentiste, non sempre serene e plurali come quelle lucane, che rischia di implodere e precipitare verso il caos e una conflittualità sociale e territoriale pericolosissima. Come i recenti fatti catalani hanno dimostrato, per scongiurare simili rischi è necessario promuovere l’autonomia e costruire rapporti armonici e rispettosi con le comunità locali, e non prevaricarne i diritti fondamentali.
La Grande Lucania non è la Catalogna, non vuole e forse non può esserlo, ma la questione di fondo trascende i singoli casi, e suggerisce l’urgente promozione di una nuova logica nell’amministrazione del territorio, che non abbia paura di sostenere le autonomie per affermare l’unità.
Luigi Iannone