Fiumi e fiumi di inchiostro. Ecco il tributo reso a Lisbeth Salander, la creatura che Stieg Larsson in tre romanzi arriva a far luccicare, come una magnifica scultura di ghiaccio dai riflessi che attirano lo sguardo e dalle estremità acuminate e gelide che respingono il tocco.

Fiumi e fiumi di inchiostro sono stati versati prima di chiunque altro da quello stesso creatore che ha levigato la sua ragazza col drago tatuato come a volerla rendere concreta, ma in realtà tenendola lontana dalla realtà grazie a troppo numerose qualità eccezionali: fama mondiale come hacker, straordinaria memoria fotografica, spiccata intelligenza logico-matematica, e, ovviamente, parecchi problemi legati alla personalità dovuti a un passato non roseo che la portano a essere diffidente e vendicativa.

Verblendung_10La sua freddezza è contemporaneamente il pilastro dell’interesse che suscita il suo personaggio e la sfida principale per chi le si accosta, lettore o personaggio che sia. Chi la ama vorrebbe essere capace di superare lo scudo che si è alzata intorno per scoprire cosa c’è dietro, e allo stesso tempo non intaccarlo per non scheggiare la perfezione della statua di ghiaccio.

Dopo la morte dello scrittore, il caso editoriale della trilogia “Millennium” scoppia; nel 2007 nessuno legge altro; le copie vendute in tutto il mondo arrivano alla notevole cifra di 8 milioni; nel 2009 dalla Svezia arriva il film di Niels Arden Oplev tratto dal primo volume della trilogia: “Uomini che odiano le donne”.

In apparenza un giallo – piuttosto riuscito, con la sua svolta nel neonazismo venato di citazioni bibliche –, il primo capitolo di “Millennium” potrebbe persino definirsi il semplice prologo della storia del rapporto fra Lisbeth e Mikael Blomkvist, interessante per la cesellatura psicologica con cui è portata avanti. Una sorta di esperimento sociale: cosa succede se un giornalista di mezza età fortunato con le donne incontra una ragazzina della metà dei suoi anni con un cervello ben al di sopra della media umana?

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In quella che è sembrata una corsa disperata al cinema prima che ci arrivassero gli americani, Oplev ha girato una pellicola che entusiasmò, nonostante le numerose differenze dal romanzo, per il forte impatto visivo e la crudezza (legittima) della sceneggiatura.

Qui Lisbeth è interpretata da Noomi Rapace, effettivamente troppo vecchia, se vogliamo essere fedeli al libro. Non è pignoleria: Rapace, attrice abbastanza valida, è troppo consapevole di sé e del mondo, per nulla intimorita e anzi, matura e talvolta riflessiva. Non c’è ferocia in lei. Mette paura, è vero, ma solo perché ha l’aria di ragionare molto e in modo crudele.

Nel 2011 Lisbeth è di nuovo messa in scena, ma stavolta in un film hollywoodiano. David Fincher, il regista, crea qualcosa di più concitato e patinato, focalizzandosi quasi esclusivamente sulla ragazza e sulla sua psicologia, che ha voluto riassumere simbolicamente nella sequenza dei titoli di testa.

Lisbeth stavolta è Rooney Mara. A lei potrebbe mancare la profondità di sguardo che Rapace aveva, quasi a voler mostrare dalle pupille il lavorio incessante della mente. Quel che la distingue in positivo è, però, il misto di terrore verso il mondo e di istintiva, animalesca aggressività. Mara si muove come un gatto, con gli occhi spalancati che studiano l’intruso Blomkvist, infiltratosi nel suo spazio vitale. I suoi movimenti sono rapidissimi, come di chi agisce con impulsività… o come chi è troppo intelligente per impiegare più di un paio di secondi ad elaborare un piano.

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Probabilmente nessuna delle due interpretazioni è quella giusta, e nessuna delle due è sbagliata. Il personaggio di Larsson è arabescato al punto da evadere l’umanità e diventare figura ideale e irrappresentabile. E per questo, ormai, è immortale.

Chiara Orefice

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