L’approvazione della legge sul testamento biologico nel nostro Paese ha riportato nelle ultime settimane al centro dell’attenzione mediatica il dibattito sulle decisioni di fine vita e sull’eutanasia. Il progresso biomedico ha reso infatti possibile prolungare la vita degli individui grazie a cure sempre più sofisticate, ma anche attraverso l’utilizzo di macchinari che concorrono a mantenere le funzioni vitali in modo artificiale.

Ma non sempre il progresso scientifico ha portato a un reale miglioramento della qualità della vita, portando all’attenzione della comunità accademica e scientifica, così come della società nella sua interezza, il dibattito sul difficile bilanciamento tra la “sacralità della vita” e la “dignità della vita”.

Lungi dall’essere un dibattito prettamente occidentale, anche il mondo islamico si trova sempre più spesso a doversi confrontare con tali problematiche e a introdurre innovazioni legislative per rispondere alle sfide della società contemporanea. Ne sono dei validi esempi le normative, approvate nella maggioranza dei Paesi islamici, che introducono la possibilità di somministrare cure palliative o che permettono la donazione di organi post mortem.

Ma qual è la posizione maggioritaria nei Paesi islamici sull’eutanasia ovvero sugli interventi medici, attivi o passivi, volti a interrompere la sofferenza di una persona malata terminale, previo suo inequivocabile consenso?

Vi è un consenso piuttosto diffuso nel mondo islamico nel non riconoscere il diritto dell’individuo a decidere volontariamente di terminare la propria vita. Nell’analizzare questa posizione bisogna partire ovviamente da ciò che dice a tale riguardo il Corano, testo sacro per i musulmani ma allo stesso tempo fonte primaria della giurisprudenza islamica, integrata dai Fatwa, ovvero le opinioni e le decisioni dei grandi studiosi del diritto islamico.

La sacralità della vita nel mondo islamico

Il Corano considera sacra la vita umana e condanna qualsiasi privazione della stessa se non “per giusto motivo” (inteso come esecuzione di una sentenza legale, l’autodifesa e la guerra giusta). L’Islam insegna che Allah dona la vita ed è l’unico a poterla togliere. Nel testo sacro si legge inoltre che:

«Chiunque uccida una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità, e chiunque salvi una persona, è come se avesse salvato tutta l’umanità».

Da questa interpretazione si deduce anche il ruolo sociale di primo rilievo che hanno i medici nelle comunità islamiche. La malattia, infatti, è considerata un normale fenomeno nella vita del fedele che, attraverso la sofferenza, espia i suoi peccati.

Nonostante l’ineluttabilità della morte i fedeli possono cercare un rimedio alla loro malattia attraverso i medici che sono quindi posti a salvaguardia della vita, richiamando idealmente il ruolo di Dio, e hanno il compito di usare ogni mezzo per preservarla e alleviare le sofferenze dei pazienti. Nella loro missione di protezione dell’intera comunità non sembra quindi rientrare la possibilità di facilitare la morte di persone per cui non si prevedono speranze di guarigione.

Ciò è confermato dal Codice Islamico di Etica Medica stabilito dalla Prima Conferenza Internazionale di Medicina Islamica svoltasi a Kuwait, nel 1985, il quale ribadisce che:

«La vita umana è sacra e non deve essere tolta volontariamente, se non nei casi previsti della legislazione islamica, nessuno dei quali ha a che fare con l’esercizio della Professione Medica».

“Do Not Resuscitate” e eutanasia passiva

Sebbene il mondo islamico attualmente concordi sulla contrarietà a forme di eutanasia attiva, ossia quelle azioni che un medico può fare per provocare direttamente la morte del malato, non vi è una posizione unica per quanto riguarda l’eutanasia passiva. A tal proposito il Codice Islamico di Etica Medica stabilisce che:

«Il medico ha il dovere di difendere la vita, tuttavia, egli deve sapere riconoscere e rispettare il limite oltre il quale non vale più la pena di lottare. Se è scientificamente sicuro che una persona non possa continuare a vivere, è inutile che si sforzi di mantenerla in vita in uno stato vegetativo mediante eroici tentativi di rianimazione. Il medico ha il dovere di far continuare la vita e non di allungare la morte».

Questa posizione è stata ribadita da Yusuf al-Qaradawi, noto teologo sunnita di origini egiziane, che ha emesso una fatwa in cui equiparava l’eutanasia all’omicidio ma allo stesso tempo ammetteva l’interruzione dei trattamenti terapeutici considerati inutili.

La decisione di interrompere i trattamenti deve però essere presa in maniera collegiale, affiancando al parere del medico curante anche quello di altri esperti in modo da garantire che la decisione presa sia la migliore per il paziente, e deve essere presa sulla base del consenso informato e quindi dopo una discussione tra i medici e i parenti del paziente.

Inoltre in alcuni Paesi, come ad esempio in Arabia Saudita, si è deciso di regolamentare l’utilizzo della rianimazione cardiopolmonare su pazienti con remote possibilità di sopravvivere. In questo Paese è infatti possibile per i pazienti apporre la dicitura “Do Not Resuscitate” nella propria cartella. La condizione del paziente verrà comunque valutata caso per caso e sarà responsabilità di tre medici specializzati decidere sull’inappropriatezza della rianimazione.

Marcella Esposito

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