Mosca e Roma, Putin e Bergoglio. Che si vada costruendo un nuovo, importantissimo asse che liberi la Russia dall’isolamento?
«La via per Pechino passa da Mosca», scriveva Il Venerdì di Repubblica lo scorso 12 giugno, parlando della diplomazia vaticana, completando l’excursus storico che partiva dall’epoca del potere bizantino in Italia, quindi ai tempi dell’Esarcato di Ravenna e della Pentapoli, e transitava per il trattato di Tordesillas, l’età dei Borgia, il Seicento delle guerre tra cattolici e protestanti, l’Ottocento delle grandi potenze e il tormentato Novecento, fino alla grande spinta diplomatica propugnata da Paolo VI e proseguita da Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e ancora da Bergoglio.
Per quale motivo la via di Mosca è l’opzione da perseguire, nell’ottica vaticana? In primo luogo, si ricerca un avvicinamento sul piano dottrinale. Funzionale in tal senso è stato l’avvicinamento al Patriarca di Costantinopoli-Nuova Roma Bartolomeo, compiuto proclamando Dottore della Fede uno sconosciuto poeta mistico armeno (quindi cristiano) del secolo XI. Questo ha di fatto irritato Erdoğan, che di armeni, questione armena e genocidio armeno non vuole sentir parlare nella sua Turchia islamizzata, e le tensioni sono poi esplose direttamente nello scontro tra Erdoğan e Bergoglio dello scorso aprile.
Da qui l’interesse ed il potenziale avvicinamento con Mosca, sia nel rapporto con il patriarca Kirill sia in quello con Vladimir Vladimirovič Putin, che ha tutto l’interesse ad asserire l’interesse russo nel Caucaso, regione nella quale è situata l’Armenia e storicamente terra di conflitto con gli islamici ottomani (e quelli ceceni, sui quali aleggia il sospetto di finanziamenti turchi in chiave anti-russa), e gli interessi congiunti russo-vaticani nella lotta all’estremismo rappresentato dall’ISIS e nell’evitare la guerra occidentale contro la Siria di Bashar al-Assad, dittatore laico schieratosi apertamente e sinceramente contro l’ISIS, uno dei pochi capi di Stato del Medio Oriente a farlo insieme al Re di Giordania ed all’Iran di Rouhani.
È poi interessante il legame storico tra le tre Rome: il re barbaro Odoacre, deposto l’ultimo imperatore d’Occidente Romolo Augustolo nel 476, inviò le insegne imperiali a Costantinopoli, fondata nel 330 come Nuova Roma, la Seconda Roma imperiale. Quando poi anche la città del Bosforo cadde, nel 1453, il patriarcato moscovita dichiarò la continuità con quello costantinopolitano, e lo zar Ivan III, sposato con Sophia Paleologo, nipote dell’ultimo imperatore di Bisanzio, reclamò per la Russia l’eredità di Bisanzio, derivandone anche il compito di lotta ai turchi ottomani.
In questo modo, Mosca si ritiene la Terza Roma, ed è in quest’ottica che va letto il tentativo di legame tra le tre Rome impostato su basi politico-religiose.
I conflitti etnici e politici nella regione ucraina possono essere letti anch’essi in chiave religiosa: il patriarcato di Mosca non ha mai perdonato alla zona più occidentale d’Ucraina, le regioni circostanti Leopoli (o L’viv, che dir si voglia) che prendono il nome di Galizia e Carpazia, il passaggio, durante l’influenza polacca e austriaca sulla zona, all’obbedienza romana, pur conservando il rito bizantino e senza il celibato per gli ecclesiastici.
Gli uniati, religiosamente, rappresentano quello che gli ucraini sono per Putin: un tentativo di affrancamento da Mosca in chiave antirussa. Lo stesso movente antirusso che si nota nell’atteggiamento dei paesi baltici, come la Svezia e la Danimarca che temono e preparano la guerra sottomarina, la Finlandia che teme e prepara le truppe terrestri, la Polonia che sviluppa nuovi carri armati come lo stealth tank PL-01, Estonia, Lettonia e Lituania che temono che si sfrutti la minoranza russa per giustificare un’invasione, l’Ucraina che è in pieno stato conflittuale, la Repubblica Ceca che ospita basi radar che dovrebbero servire per lo scudo missilistico.
Non c’è da meravigliarsi, dunque, se Mosca si mostra diffidente e si esprime tramite prove di forza e timidi tentativi di apertura stigmatizzati dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea per mezzo di quei commissari dell’Est, che rappresentano complessivamente all’incirca 76 milioni di persone ma contano esattamente, siccome ogni Stato vale un voto, quanto Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna, Paesi Bassi, Belgio e Portogallo, cioè all’incirca 350 milioni di persone.
La “sindrome da accerchiamento” è una costante nella politica estera russa: a ovest i paesi ex-sovietici sono ostili, a sud la Turchia preme sul Caucaso e l’ISIS è un pericolo, a est il pericolo arriva dal Pacifico a egemonia statunitense: ecco spiegato l’interesse di Mosca verso Pechino.
La Cina, infatti, controlla economicamente un decimo del debito pubblico statunitense, e sta stringendo un’intesa con il Giappone, che ne controlla un ulteriore decimo. Inoltre, Pechino ha interessi e finanziamenti in Africa, Asia e mezza Europa: diventa dunque un partner strategico per evitare un possibile attacco dal fronte orientale, più sguarnito, ed evitare l’avanzata nemica in Siberia, quando solitamente l’avanzata occidentale (Napoleone nel 1812, l’Operazione Barbarossa nel 1941-42) non ha mai raggiunto gli Urali.
Avvicinare Roma e Pechino passando per Mosca, a quel punto, sarebbe la realizzazione di un piano che porterebbe all’apertura verso più di un miliardo e trecento milioni di anime.
Simone Moricca