Hassan Rouhani è stato rieletto presidente della Repubblica Islamica dell’Iran e resterà in carica fino al 2021. Il voto ha confermato ciò gli analisti avevano ipotizzato: Rouhani ha conquistato una netta maggioranza con 56,3% dei consensi.

Hanno partecipato al voto oltre il 70% degli aventi diritto, in tutto circa 56 milioni. Un’affluenza in linea a quella delle elezioni presidenziali 2013 (72%) e in netto rialzo rispetto al voto parlamentare del 2016 (62% al primo turno, 59% secondo turno), tanto da far rinviare per ben due volte la chiusura dei seggi. La scelta degli elettori ruotava intorno al nome dell’attuale presidente Hassan Rouhani e di altri cinque candidati. Una scelta fortemente limitata dal giudizio insuperabile del Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione: dei 1629 candidati a divenire presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, tra cui 137 donne che avevano proposto la propria candidatura, solo in sei, tutti uomini, sono stati promossi al passaggio democratico.

Tra loro, Rouhani è rimasto sempre il favorito, anche se nelle ultime settimane il Paese sembrava spaccato in due. Ebrahim Raisi, l’ultraconservatore dal turbante nero del Fronte popolare delle forze della rivoluzione islamica (JAMNA), infatti, ha riscosso numerosi consensi, soprattutto tra i seguaci dell’allatoya Ali Khamenei, Guida Suprema dell’Iran a vita e tra i delusi dalle politiche dell’attuale governo.

Fermandosi solo al 39.8%, Raisi non è riuscito ad affondare il turbante bianco di Rouhani, che ha trionfato nonostante il crescente malcontento nei suoi confronti: una disoccupazione giovanile al 30%, un’economia che stenta a spiccare il volo e troppe promesse mai mantenute. Lo storico patto nucleare firmato dall’Iran nel 2015 con il Consiglio di Sicurezza ONU, dopo un decennio di esclusione internazionale, non ha ancora sortito gli effetti sperati e l’Iran fatica a uscire dall’isolamento finanziario e commerciale. Nessun miracolo economico, dunque, anche se i dati a riguardo non sono così negativi: dal 2013 l’inflazione è scesa dal 40 al 10 per cento e lo scorso anno la crescita è stata del 6,6 per cento, soprattutto grazie ai proventi nel settore petrolifero.

Come nel 2013, anche quest’anno la propaganda di Rouhani si è incentrata tutta sull’economia, promettendo un’integrazione sempre maggiore dell’Iran nel panorama internazionale, insieme a cambiamenti in ambito politico e sociale. La disoccupazione, oggi al 12,5%, è stata al centro della campagna presidenziale, che si è rivolta soprattutto ai giovani, fiduciosi nelle sua politiche di apertura. Da lui il Paese si aspetta di continuare – e magari velocizzare – la strada del primo mandato, premendo sull’acceleratore per il lavoro, il commercio e gli investimenti esteri (soprattutto in ambito petrolifero). Contemporaneamente, per aggraziarsi la parte più conservatrice dell’Iran, Rouhani si è dichiarato a favore di un’adesione più stretta del Paese all’ortodossia della Repubblica Islamica. Rimarranno inoltre invariati l’appoggio dell’Iran alle forze di resistenza anti-americana e le rivalità verso Israele e l’Arabia Saudita.   

La riconferma di Rouhani rinnova anche una tradizione elettorale ormai decennale: è dal 1981 che il secondo mandato è stato una costante per tutti i presidenti iraniani, incluso Mahmoud Ahmadinejad, la cui rielezione nel 2009 ha scatenato forti scontri a causa di presunti brogli elettorali. Come ha dichiarato prima del voto Mohammad Khatami, uno degli esponenti più importanti del movimento riformista, «Abbiamo iniziato un percorso con Rouhani e siamo al centro del viaggio […] Abbiamo risolto alcuni problemi e abbiamo bisogno di risolvere problemi più grandi e continuare con lui questo difficile percorso». E la sua vittoria mostra quanto la maggior parte della popolazione dell’Iran sia in linea con questo pensiero.

Tra i problemi più importanti c’è quella parte di sanzioni ancora in vigore a causa del programma missilistico di Teheran, oltre alla grave accusa di finanziare il terrorismo, che spinge le banche internazionali alla prudenza negli affari con il paese. Nell’ultimo dibattito prima del silenzio elettorale, Rouhani ha annunciato di voler far fronte a queste due tematiche, senza però spiegare come farlo ora che Donald Trump, che ha definito il patto nucleare «l’affare peggiore che abbia mai visto», ha conquistato la Casa Bianca. La sua amministrazione ha comunque riconfermato l’abolizione delle sanzioni contro l’Iran.

Ancora moltissima strada da fare, invece, per i diritti umani e civili: nonostante dal 2015 abbia firmato numerosi trattati ONU sui diritti fondamentali, l’Iran è tra i Paesi che più spesso fanno ricorso alla pena di morte, anche verso i rei minorenni. Un rapporto del 2016 sostiene che nei tre anni successivi all’insediamento di Rouhani, le impiccagioni sono state 2.277, una cifra enorme anche rispetto agli anni precedenti. A preoccupare le organizzazioni per i diritti umani, inoltre, sono i tribunali rivoluzionari che operano con grande arbitrarietà, troppo spesso perseguitando le minoranze religiose, etniche, sessuali e di genere. Nulla nemmeno sul fronte della comunicazione e della libertà di espressione: in Iran il diritto a esprimersi liberamente è ancora un sogno lontano.

Rosa Uliassi

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