Il recente referendum dello scorso 4 dicembre, nonostante abbia impedito all’ex premier Renzi di cambiare la Costituzione, ha lasciato segni e ripercussioni nel panorama politico italiano: dal cambio di governo al destino ancora incerto della legislatura. Di qualche mese indietro rispetto all’Italia, invece, è la Turchia che comincia in questi giorni la campagna referendaria con gli occhi dei media puntati sul prossimo 16 aprile, data fissata da Erdoğan per la consultazione popolare che potrebbe rappresentare una svolta radicale per la storia turca.
Tutto è cominciato lo scorso 10 febbraio, con la ratifica da parte del presidente Erdoğan della modifica costituzionale, preceduta dall’approvazione al parlamento turco con 339 voti favorevoli su 550. Una riforma che va verso una repubblica presidenziale, sullo stile statunitense, dove i poteri del primo ministro e del presidente della Repubblica coincidono. A tal proposito il primo ministro turco Yıldırım, l’ultimo della storia del suo Paese in caso di approvazione della riforma, ha dichiarato che «Se Dio vorrà, il sistema presidenziale metterà fine a questo periodo di coalizioni governative», il che darà alla Turchia un «esecutivo forte».
In caso di vittoria del Sì dunque si andrà verso il ritorno di un “Sultanato” e ci si allontanerà dalla Repubblica laica fondata da Atatürk poco meno di un secolo fa. Il futuro ‘sultano’ sarebbe quindi la fusione tra le due figure di presidente della repubblica e primo ministro, con l’aggiunta di un numero di vicepresidenti che oscillerebbe tra uno e tre. Il presidente dovrebbe quindi essere per la Turchia arbitro e esecutore, mantenendo tuttavia i legami col partito di appartenenza, cosa proibita ad un capo dello Stato che dovrebbe avere un ruolo super partes.
Tra le cose più contestate dai comitati per il No alla riforma vi è inoltre la concentrazione di potere, ritenuto eccessivo dagli oppositori di Erdogan, nella figura del presidente-sultano che si tradurrebbe nelle facoltà di scegliere i ministri del governo, preparare e gestire il budget statale, nominare la maggioranza dei giudici costituzionali e promulgare leggi tramite decreto, oltre al potere di dichiarare lo stato di emergenza sollevando dunque il parlamento dalle proprie funzioni e assumendo di fatto un potere assoluto.
Anche il Parlamento subirebbe un cambiamento non indifferente aumentando da 550 membri a 600, ma perdendo il diritto di scrutinare i ministri e proporre inchieste. Tuttavia sarebbe comunque in grado di dichiarare impeachment e indagare il presidente con la maggioranza parlamentare, mentre per processarlo servirebbero due terzi dei voti parlamentari. Infine le elezioni presidenziali e parlamentari verrebbero tenute lo stesso giorno ogni cinque anni, con un vincolo di due mandati per il presidente.
Il Comitato del Sì, appoggiato e capeggiato da Erdoğan stesso, sostiene che la riforma in questione garantirà più stabilità alla Turchia, il cui popolo vive una situazione di continua insicurezza dovuta alla grande quantità di attentati terroristici, al momentaneo rallentamento della crescita economica e alla guerra combattuta nel nord della Siria. Il vice premier Kurtulmuş si è addirittura spinto a dichiarare che «Certi terroristi e aggressori potranno creare un clima di paura e terrore se questa riforma non verrà approvata. Ma se Dio vuole, una volta che il Sì avrà vinto, queste organizzazione terroristiche perderanno la loro voce e le loro motivazioni».
Il Comitato del No invece sostiene che «Se il Sì vince il referendum, Recep Tayyip Erdogan potrà fare ciò che vorrà. Un solo individuo terrà 80 milioni di persone in ostaggio senza dover rendere conto a nessuno».
Carlo Rombolà