Cari lettori, vi siamo mancati? Mi auguro di sì, mi auguro che almeno un poco, tra gli ombrelloni e le piste da trekking, abbiate seguito il nostro lavoro di questi mesi. Un lavoro profondo e faticoso – le nostre forze sono esigue, ma la passione, quella è sterminata – che ci ha permesso, finalmente, di ripresentarci in una veste completamente rinnovata sui vostri schermi. Ho atteso questo momento con malcelata impazienza, sia per naturale curiosità, sia per una goffa voglia di spaccare il mondo, una sottile vena di impacciata spavalderia. Ma è domenica, finalmente, ed è tempo di brainch.
Dunque, per ricapitolare e riprendere il filo del discorso, ci siamo lasciati mentre il mondo andava a rotoli faticando ad assorbire la sanguinosa scia lungo la striscia di Gaza, mentre Russia e NATO giocavano alla versione casalinga della Guerra Fredda – edizione Crimea, mentre in Asia l’ISIS tingeva di rosso le pagine di una nuova jihad; ma noi italici risolutori, popolo di santi, poeti, navigatori ed hipster, noi non restavamo a guardare.
Le faccende di casa nostra, in realtà, erano rivolte verso questioni più rustiche, più “salsa e maccheroni” rispetto ai quintali di polvere ingoiati dalle minoranze etniche barbaramente trucidate nelle steppe asiatiche, o ai profughi palestinesi vittime di uno spietato tiro al bersaglio da parte delle milizie israeliane. Da questa parte del Mediterraneo il dibattito era tutto incentrato… su twitter.
No, non ho dato di matto – non ancora –, semmai a perdere il buonsenso sono stati i politici nostrani, così suadentemente affascinati dalle meraviglie delle nuove tecnologie social, e in particolare dai temutissimi hashtag. Una parola che potrebbe sembrare una richiesta d’aiuto nel bel mezzo di un attacco d’asma, ma che in realtà definisce i “cancelletti” utilizzati su twitter per integrare e correlare fra di loro specifici argomenti. Ma si sa, dallo strumento virtuale alla mania il passo è sempre stato breve. E così la nuova generazione della politica, più che contare sugli ormai obsoleti monopoli televisivi, ha deciso di virare sul mezzo più libero e democratico del mondo: internet. E pazienza se abitate in Turchia, non potrete leggermi e dunque neanche contraddirmi.
A Beppe Grillo con i suoi #tuttiacasa, #vinciamonoi, #renzie l’ebetino e l’ebolino, #stampanti3d, più una lunga sequela di commenti più o meno generosi su Laura Boldrini, le scie kimike, le scatolette di tonno e gli zombie, fa da perfetto sparring partner Matteo Renzi, con #lasvoltabuona, #cambiaverso, #passodopopasso, #millegiorni (di te e di me?), #enricostaisereno, e via dicendo. Una battaglia combattuta online, più che nelle aule parlamentari, a colpi di tweet più che di emendamenti. Un giochino puramente mediatico, si dirà, d’altronde è necessario intercettare nuovi target e bacini d’utenza, e la popolarità di siti quali, appunto, twitter e facebook, non può sfuggire alle segreterie dei part… ops, movim… vabeh, a quelli là.
Così, mentre ci dilettiamo a riformare la Costituzione siamo pronti a diventare, ufficialmente, la Repubblica degli Hashtag. Sempre meglio che essere la Repubblica delle Banane, obietterà qualcuno, ma in fondo io tutta questa grande differenza non la vedo: parliamo sempre di una massa di primati urlanti e strepitanti che affermano il predominio territoriale per appropriarsi dei frutti più dolci e succulenti.
Con ciò non intendo mettere in discussione l’utilità della comunicazione nel campo della politica; e sarebbe utopistico ambire ad un’informazione perfettamente onesta e limpida, consapevole e realmente amica del cittadino. Ciò che contesto è l’(ab)uso che se ne fa, al punto da ribaltare la naturale dinamica tra semiologia e contenutismo. Sono vent’anni, dall’ascesa del regno berlusconiano, che la politica italiana si caratterizza per una passione morbosa verso gli annunci, a tutto discapito di un po’ di sano pragmatismo; e neppure le “rivoluzioni” renziane e a 5 stelle sembrano essere in grado di superare tale modello: semmai, soltanto di adeguarvisi in funzione dei nuovi contesti socio-culturali.
Insomma, senza arrivare a misure-limite di privazione della libertà, che pure sarebbero troppo ingenerose, suggerirei, la butto lì, che potremmo pensare di sequestrare tablet e cellulari ai nostri onorevoli quando entrano in Parlamento. Magari imparerebbero a farne un uso più consapevole. O magari si concentrerebbero di più sul loro lavoro. D’altronde ce lo insegnano già a scuola, per buona educazione, che i cellulari vanno tenuti spenti.
A domenica prossima.
Emanuele Tanzilli
Non molti anni fa, ai visitatori che accedevano all’Aula di Monte Citorio (non importa se nelle tribune del pubblico o addirittura tra i banchi) era fatto obbligo di depositare portafogli, cellulari e quant’altro negli armadietti custoditi siti all’ingresso.
Gli onorevoli deputati possono portare smartphone, tablet, netbook e notebook – potrebbero essere ottimi sostituti dei faldoni, se solo venissero usati unicamente per questo.