Il conflitto siriano, che dura ormai da sei anni, è una realtà divenuta globale, vissuta ogni giorno da 5 milioni di rifugiati che sono riusciti a scappare dal paese e da altri 6,3 milioni che sono stati vittime di sfollamenti forzati. È l’unica realtà di uomini, donne e bambini che dal 2011 si sono ritrovati a vivere nella Siria devastata da una guerra civile che si è trasformata in un’enorme partita a Risiko.
Tuttavia, la guerra in Siria è anche la realtà mediatica alla quale i cittadini dei Paesi europei sono esposti dal 2011.
Una dimensione distante e riprodotta attraverso il filtro dei notiziari, dei giornali e del web, che nel tentativo di informare finiscono col dare un’immagine sfocata, una fredda lista di numeri.
Per moltissime persone la guerra in Siria e il dramma dei rifugiati sono rappresentati dalla straziante immagine, divenuta virale, di Aylan Kurdi, un bambino di 3 anni il cui cadavere fu ritrovato sulle spiagge turche nel settembre del 2015. La foto, pubblicata da moltissimi giornali in tutto il mondo, è stata vista da molti come uno spartiacque, un momento cruciale in cui finalmente il mondo si è reso conto di quello che succedeva in Siria.
Qual è forza della fotografia di Aylan?
Secondo il photo editor Christian Caujolle, il motivo per cui la morte di Aylan ha scosso le coscienze di tutto il mondo è da ricercarsi nella foto stessa: «commovente, sia per la sua distanza rispettosa sia per l’assenza totale di spettacolarizzazione che anima l’inquadratura».
Un’immagine la cui violenza non è intrinseca, ma che ci rimanda a una situazione di violenza intollerabile: il bambino – un corpo inanimato restituito dal mare come se fosse la spazzatura che troviamo sulle spiagge ad agosto – e un militare che lo raccoglie delicatamente, quasi a proiettare la speranza che l’Europa si mobiliti attivamente per dare rifugio ai profughi.
A distanza di due anni, la situazione è cambiata?
Secondo uno studio pubblicato il 14 dicembre 2015, nel giro di dodici ore più di 20 milioni di persone avevano visto la foto del piccolo Aylan. Il risultato è stato che a livello mediatico si è avuto un netto incremento del termine “rifugiato” rispetto a “migrante“, fatto che ha suggerito un’avvenuta variazione nel senso di responsabilità delle persone. «Parlare di rifugiati – argomenta Frank Duvell dell’Oxford University’s Centre on Migration, Policy and Society – vuol dire riconoscere una qualche responsabilità alla protezione internazionale che la parola ‘migrante’ non comporta».
Tuttavia, a livello di politiche ufficiali, la situazione non è cambiata di una virgola, se non addirittura peggiorata. Dopo un iniziale ottimismo non sembra che l’immagine di Aylan abbia prodotto effetti positivi in merito alla questione dei rifugiati, né tanto meno in merito alla risoluzione del conflitto. Anzi, secondo Tima Kurdi, zia di Aylan residente in Canada, le immagini individuali e le emozioni che ispirano finiscono per distrarre l’attenzione dalla ricerca di un piano per porre fine alla violenza.
In un articolo del The Guardian del 7 dicembre 2017 si fa riferimento a una ricerca pubblicata dal Lancet Global Health, nella quale viene sottolineato il risultato dei bombardamenti messi in atto a partire dal 2014 dall’esercito siriano e dalla coalizione internazionale. Secondo lo studio, i bombardamenti nelle aree urbane densamente popolate hanno avuto un “impatto letale sproporzionato sui civili, in particolare sui bambini“. Mentre i bombardamenti sono stati la causa della morte del 57% dei civili, solo l’11% dei militanti dell’opposizione ha perso la vita a causa loro, suggerendo “un utilizzo indiscriminato di armi che violerebbe il diritto umanitario internazionale“.
Le cause della mortalità dei civili in Siria
L’arma principale utilizzata contro i civili siriani è il lancio su ospedali, case e mercati dei cosiddetti “barili-bomba”, ovvero taniche esplosive ricolme di chiodi e altri oggetti acuminati. La strategia di “doppio-rilascio”, due ondate a distanza ravvicinata, è servita per assicurare il maggior numero di vittime anche tra i soccorritori. Un’altra ricerca del Lancet evidenzia l’utilizzo massivo del bombardamento sistematico delle strutture ospedaliere e degli operatori sanitari come una strategia di guerra senza precedenti.
Il conteggio dei morti, operazione che l’agenzia ufficiale delle Nazioni Unite ha chiuso già nel 2014 per l’impossibilità di ottenere stime attendibili, non è sufficiente a descrivere il disastro del conflitto siriano.
Le stime si aggirano attorno alle 400.000 vittime, numero nel quale generalmente non vengono prese in considerazione le “morti indirette”, ovvero tutte quelle morti causate dalla mancanza di servizi igienici e ospedalieri, dalla fame e dalle epidemie. L’aspettativa di vita si è ridotta di 20 anni, più della metà della popolazione ha dovuto lasciare la propria casa, migliaia di bambini non hanno accesso a un’istruzione di base.
Nonostante le difficoltà, mai come in questo momento è fondamentale che si continui a tenere traccia delle morti e a produrre statistiche.
Come spiega in un articolo dell’ottobre 2016 Patrick Ball, direttore di ricerca del Human Rights Data Analysis Group, l’analisi dei dati è cruciale per produrre stime attendibili. Nonostante la scarsezza di fonti è possibile, tramite una ricerca incrociata, stabilire un range entro il quale si aggira il numero delle vittime e inoltre produrre schemi probabilistici che diano conto dei dati che non possediamo.
Secondo Ball, creare grafici che tengano conto sia delle informazioni pervenute sia di quelle basate sulla probabilità aiuta a creare un’immagine più chiara delle violenze avvenute durante il conflitto. Quantificare i movimenti di masse di persone attraverso le diverse aree geografiche aiuterebbe a identificare gli autori di quelli che devono essere considerati crimini contro l’umanità.
Anche se questa guerra sembra infinita, prima o poi dovrà concludersi.
A quel punto, l’unica speranza per i siriani sarà riposta nella giustizia. La messa a processo degli autori di tali crimini è determinante ai fini del superamento della crisi politica e della rifondazione del patto sociale tra governanti e società civile. È necessario continuare a contare i morti affinché i vivi possano dare giustizia alle vittime siriane e costruire una Siria libera e democratica.
Claudia Tatangelo