“La mattina, rimaneva pensosa sotto il noce, seduta sulla panchina di legno tarlato e coperta di muschio grigio dove si erano detti tante cose belle, tante piccole sciocchezze, dove avevano costruito i castelli in aria della loro dolce unione. Pensava all’avvenire guardando il piccolo spazio di cielo che le mura le permettevano di abbracciare; poi il vecchio muro e il tetto sotto il quale si trovava la camera di Charles. Insomma era l’amore solitario, l’amore vero che continua, che si insinua in ogni pensiero, e diventa la sostanza, o, come avrebbero detto i nostri padri, la stoffa della vita.”
(«Eugénie Grandet»)
Salutato dalla critica come precursore del Realismo per la sua monumentale opera, incompiuta proprio a causa della sua vastità, «La commedia umana», in cui realizza un affresco impressionante e potente della società del suo tempo, spaziando pressoché in tutti gli ambiti ed i ceti, Honoré de Balzac (Tours, 1799 – Parigi, 1850) risulta, invece, già ad una primo approccio, romanziere molto più complesso e poliedrico di quanto un asettico, scolastico studio della sua produzione non faccia trapelare.
Figlio di un funzionario statale, si laurea in giurisprudenza per le pressioni insistenti della famiglia e nonostante le sue inclinazioni artistiche. I suoi primi lavori, tuttavia, come la tragedia «Cromwell», sono stroncati dalla critica. Un tentativo, maldestro, di improvvisarsi tipografo e stampatore, lo porta al fallimento ed alla rovina. A trent’anni, orfano di padre, senza altre risorse, Balzac si dedicherà unicamente alla letteratura per il resto della sua vita, facendone una professione, una vocazione, quasi una missione. Benché ampiamente disomogeneo per qualità e profondità espressiva, il suo lavoro febbrile culmina in capolavori che segneranno la nascita del romanzo moderno, come «La pelle di zigrino», «Papà Goriot», «Eugénie Grandet», «La ricerca dell’assoluto». Lo stile, ampio, vario, largamente descrittivo, procede per cerchi concentrici che corrispondono a vari strati di coscienza e consapevolezza del reale e dell’intima psicologia dei personaggi. La precisa collocazione in un contesto fisico, in cui le scene della vita cittadina o rurale si dispiegano nella loro grandezza e con una prospettiva penetrante, quasi a poterne respirare la vitalità intrinseca, è la tela su cui l’autore dipinge i movimenti, gli incastri, i sotterfugi, le alchimie della società – lo spirito del tempo e dei costumi – e, all’interno di essa, unici, vivi, alitanti ad ogni pagina, i personaggi immersi nel mondo, in qualità di artefici della sua dannazione o di vittime sacrificali dinanzi alla divinità del progresso ed ai suoi due aiutanti sul campo di battaglia: “il denaro e il piacere”.
“Nessun sentimento resiste al flusso delle cose e la loro corrente provoca una reazione in cui si stemperano le passioni: l’amore è solo desiderio e l’odio solo ostilità; l’unico parente fidato è un biglietto da mille franchi, l’unico amico il Monte dei Pegni. (…) dove hanno origine e dove vanno a finire i sentimenti, la fede, le tradizioni? Denaro e piacere. Usate questi due concetti come una lampada e percorrete questa enorme gabbia di cemento, quest’alveare dagli scoli fetidi, seguite i rivoli di quel pensiero che lo mettono in fermento, in rivolta, in angoscia?”
(«La fanciulla dagli occhi d’oro»)
Non è un caso che Balzac abbia voluto raccogliere e strutturare i suoi romanzi sotto il titolo di “Commedia”: “Ed ecco che siamo arrivati al terzo girone di quest’inferno che prima o poi troverà il suo Dante”, scrive ne «La fanciulla dagli occhi d’oro», romanzo breve, atipico, in cui la trama sensuale sembra quasi un semplice pretesto per la descrizione impietosa, cupa, disperata della metropoli parigina che occupa circa un quarto della composizione. Per Balzac, il mondo è realmente un inferno.
Se il contemporaneo Nerval percorre le vie dell’intuizione, del sogno, del portato metafisico di cui è intessuta la vita stessa, Balzac dipinge personaggi cui tale accesso ad una consapevolezza superiore è negato, relegati all’infelicità e all’emarginazione dalla logica del profitto, dal materialismo cieco, dalla sete dell’oro, dalla febbre di piaceri, dalla fame che divora sé stessa. Ciò che nel Romanticismo è l’essenza ineliminabile dell’esistenza, in Balzac è avvertito come mancanza, nostalgia di una vita autentica, ricerca continua di verità eterne. È da questa dolorosa consapevolezza che sorgono e s’innalzano i più grandi eroi balzachiani, questi sì autenticamente romantici, immersi in un mondo che non comprendono e che non li comprende, simili ad angeli condannati ad annaspare sulla terra.
Balzac, peraltro, individua all’interno del sistema capitalistico la crescente influenza della borghesia ed ancora, in essa, il terreno fertile in cui i “germi dell’egoismo” attecchiscono più facilmente, proprio in quanto fulcro vitale dell’economia dell’epoca. La ricerca dell’assoluto, del divino, può esercitarsi solo alienandosi dal consesso civile, dalla patria, dalle consuetudini; dalla schiavitù del profitto e del denaro, che “domina le leggi, la politica, i costumi”. Parallelamente, anche il tempo diviene un nemico, da consumare nell’ansia del lavoro massacrante o nella simile angoscia di un riposo avido e inquieto.
Dal confronto col mondo, con la dannazione istituzionalizzata, i personaggi più puri e autentici non possono che uscire sconfitti, sebbene avvolti da un’aura di rispetto, quali messaggeri incompresi.
In «Eugénie Grandet» l’amore della protagonista per il cugino, Charles, appena rimasto orfano – casto, spiritualizzato, idillico e al contempo quotidiano, fatto di piccoli gesti e di sogni d’infanzia – aleggia come un incanto benedicente sulla casa di famiglia. Incompreso e osteggiato dal padre di Eugénie, che vede nella morte (e nel fallimento) del proprio fratello solo un’occasione per arricchirsi e che, per avere mano libera, allontana il nipote, spingendolo a partire per terre ignote, il sentimento sembra resistere anche alla lontananza, al tempo, alle convenzioni sociali. Tuttavia, il tarlo del profitto, del denaro, corrode lentamente anche il giovane Charles, che dal commercio passa ben presto al contrabbando ed alla tratta degli schiavi, dimenticando la compagna della giovinezza: “il tempo delle illusioni è passato”, scrive a Eugénie. Tornato in patria, sposa una giovane aristocratica pur senza amarla, inseguendo una rendita di qualche migliaio di franchi. Ironia della sorte, Eugénie ha nel frattempo ereditato dal padre ben diciassette milioni di franchi.
Nella luce del passato, dell’amore che ha conosciuto meraviglioso e vivo, Eugénie rimarrà fedele ai propri sentimenti, consapevole della loro grandezza.
“Tale è la storia di questa donna che non è del mondo pur essendo nel mondo; che, fatta per essere una magnifica sposa e madre, non ha né marito, né figli, né famiglia.” — conclude Balzac.
«La Commedia umana», che si sarebbe dovuta articolare su centotrentacinque romanzi, rimane incompiuta, annoverando comunque una novantina di opere terminate nel 1850, quando Balzac, appena sposatosi con la contessa polacca Évelyne Hańska, muore a soli cinquantun anni.
Oscillando tra Romanticismo e Realismo, Honoré de Balzac individua acutamente i temi del vuoto esistenziale, della ricerca della verità ultima, dell’insufficienza del reale dinanzi alle istanze interiori, che saranno propri della narrativa e della speculazione filosofica moderne.
Davide Gorga