Non era mai stato così duro il confronto all’interno del Partito Democratico, nemmeno ai tempi dell’appoggio a Mario Monti, che pure faceva discutere. Ma Matteo Renzi tiene duro e specifica, a metà mattinata: “Vado avanti e mantengo le promesse”, lo dice al Tg2, poco prima di andare negli Stati Uniti per incontrare Obama. Il suo intervento è un duro attacco anche alla minoranza interna del partito: “Nel mio partito c’è chi pensa che dopo il 40,8% alle europee si possa continuare un ‘facite ammuina’ per cui non cambia niente e Renzi fa la foglia di fico: sono cascati male, ho preso questi voti per cambiare l’Italia davvero”.
Pier Luigi Bersani raccoglie la provocazione e risponde: “Con la mia storia…conservatore no, non posso essere accusato di esserlo. Vecchia guardia posso accettarlo ma più vecchia guardia di Berlusconi e Verdini chi c’è? Vedo che loro sono trattati con educazione e rispetto, spero che prima o poi capiti anche a me”.
E sull’Articolo 18 spiega: “Se vogliamo opporci alla frammentazione e alla precarietà, allora dobbiamo sfrondare e unificare con un percorso crescente di diritti per tutti, compresi i licenziamenti. In tutta Europa esiste il reintegro, quindi semplifichiamo, ma il reintegro resta”. Interviene, poi, anche Cuperlo: “Non possiamo accettare una discussione strumentalizzata per dividere il Pd tra innovatori e conservatori o minacciare decreti. Basta con le provocazioni e gli ultimatum”. E ancora: “La delega sul lavoro è troppo vaga. Chi fa il segretario e premier ha il dovere di indicare il percorso”.
Ma non solo, in mattinata è arrivata la stoccata di Cesare Damiano, il quale rifiuta il cosiddetto “aiuto azzurro” sui temi del lavoro, indiscrezione rivelata qualche giorno fa dopo l’ultimo incontro tra Berlusconi e Renzi e, dopo, l’intervento di Delrio ad Atreju. Damiano afferma a Radio Radicale: “Sulle questioni economiche del lavoro dovrebbe essere rifiutato il soccorso azzurro. È chiaro che se fossero determinanti i voti di Forza Italia per tenere in piedi il governo su questo argomento ci sarebbe anche una conseguenza politica. Non vorrei che Renzi riuscisse a fare sui temi del lavoro quel che non è riuscito a fare Berlusconi”
Lo scontro, sebbene duro, non sarebbe tanto grave per provocare una scissione, lo spiega Alfredo D’Attorre: “La scissione è fuori dalla realtà. E poi bisognerebbe capire chi se ne va, visto che la stragrande maggioranza degli iscritti e degli elettori Pd la pensa come noi sul lavoro…”. “Scissione? Non scherziamo”, gli fa eco Miguel Gotor, bersaniano di ferro. Ma domani sarà una giornata molto importante per la tenuta del partito, ci sarà un vertice alla Camera tra i leader delle minoranze: Cuperlo, Civati, Bindi e Fassina, si discuterà della situazione, ma anche degli emendamenti da presentare in Senato. Gli antirenziani fanno gruppo, quindi, Chiti agita le acque e spiega: “Nessuno sottovaluti, è in gioco il futuro del Pd come grande forza di una sinistra plurale. Consolidare il 41% richiede una valorizzazione delle idee e non l’amputazione della sinistra…”.
Non c’è da scherzare, quindi, con i sindacati ci si potrebbe incontrare “quando il premier rientra dagli Usa”, ipotesi, comunque, molto complicata. Così come pare difficile, ormai, una mediazione accettabile con l’ampia minoranza interna del Pd. La scelta finale è del Presidente del Consiglio: ma lo spazio è molto stretto.
Luca Mullanu
Si è arrivati al punto di non ritorno!