Non è ancora chiaro il bilancio dei morti e dei feriti causati dai violenti scontri di lunedì 19 settembre durante una manifestazione a Kinshasa, la capitale della Repubblica Democratica del Congo. La protesta, organizzata sotto la sede della commissione elettorale per invocare le dimissioni del presidente Joseph Kabila e chiedere una data per nuove votazioni, è degenerata con il lancio di lacrimogeni e, secondo alcune testimonianze, di proiettili, da parte delle forze dell’ordine. Dopo le barricate e l’incendio di diverse auto, la folla avrebbe anche linciato e dato fuoco a un poliziotto.
Le violenze sono proseguite anche nella giornata del 20 settembre, con sparatorie in più punti della città e l’arresto di oltre 200 persone. I gruppi di opposizione parlano di oltre 50 vittime, mentre le fonti governative dichiarano 17 morti, 14 civili e tre poliziotti. Per Human Rights Watch le persone uccise sono invece 44, tra cui sei poliziotti. L’agenzia stampa AFP, riporta la morte di altre quattro persone durante l’incendio delle sedi di tre partiti d’opposizione: l’MLP, Movimento progressista lumumbista, l’UDPS, Unione per la democrazia e il progresso sociale e FONUS, Forze innovative per l’unione e la solidarietà.
I manifestanti si oppongono al rinnovo del mandato presidenziale, in scadenza a dicembre, perché violerebbe i principi della Costituzione. Kabila, divenuto presidente nel 2001, subentrando al padre, è stato eletto democraticamente nel 2006, dalla prima consultazione a suffragio universale dopo la guerra civile in Congo (1998-2003). Tuttavia, già nel 2011, nonostante la riconferma della presidenza, le tensioni tra i diversi partiti sfociarono a più riprese in forti tumulti. Oggi, dopo quindici anni di potere senza interruzioni, Kabila non sembra intenzionato a rispettare il limite costituzionale dei due mandati e le opposizioni ne denunciano i tentativi di rimandare le elezioni ulteriormente, appellandosi alle difficoltà amministrative di organizzare il voto nelle zone più remote del Congo.
I disordini di questi giorni rappresentano l’apice di una situazione critica già da diversi mesi. Lo scorso febbraio, l’inviato statunitense Thomas Perriello aveva sottolineato il rischio «di violenze peggiori di quelle che hanno sconvolto il Burundi», paese piombato in un vortice di emergenza umanitaria dopo la decisione di Pierre Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato presidenziale, anche in questo caso violando la Costituzione.
Sono mesi che gli Stati Uniti esercitano forti pressioni politiche contro Kabila, accusandolo di schiacciare le opposizioni e favorire un clima di terrore nel paese attraverso l’abuso di potere delle forze dell’ordine, guidate dal generale Celestin Kanyama. È lui considerato il responsabile della feroce repressione del 2015 (40 civili uccisi) e dell’illegale perseguimento di alcuni leader di altri partiti congolesi. Il suo principale avversario politico, Moise Katumbi, ex governatore della provincia del Katanga, si trova in carcere da giugno ed è dunque non candidabile.
Seguendo il calendario elettorale, le nuove votazioni del Congo dovrebbero essere il prossimo novembre, ma l’intensificazione della rabbia e della repressione potrebbero porre in pericolo lo svolgimento libero delle elezioni. Non sembra esserci pace, dunque, per la Regione dei Grandi Laghi e per la sua popolazione, martoriata a più riprese da crisi politiche ed economiche, troppo spesso affrontate dai governi con sanguinose repressioni.
Rosa Uliassi