In Polonia, a quanto pare, esiste un rischio concreto e attuale di deriva autoritaria da parte del governo centrale, tanto da mettere in allerta l’esecutivo UE, più che mai deciso a mettere in pratica la cosiddetta opzione nucleare nei confronti di Varsavia.
Dietro questa denominazione altisonante – e, francamente, anche un po’ infelice – c’è la possibilità, da parte della Commissione europea, di attivare la procedura prevista dall’articolo 7 del Trattato di Maastricht, che ha l’effetto di mettere in stato d’accusa un Paese membro dell’Unione Europea.
Come si è arrivati all’opzione nucleare?
Le frizioni tra il governo polacco e la Commissione si stanno trascinando da diversi mesi, ma la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l’approvazione della riforma della giustizia, che porrà la magistratura, di fatto, alle dipendenze della politica, in totale spregio al principio della separazione dei poteri, cardine delle democrazie europee.
Con la legge contestata, infatti, il ministro della Giustizia diventerà automaticamente procuratore generale e avrà il potere di opporre il veto alla nomina dei giudici ordinari e dei membri della Corte suprema e del Tribunale costituzionale.
La riforma, promossa dall’attuale ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro, è stata, se non caldeggiata, quanto meno tollerata dal governo di Varsavia, e a poco sono valse le rassicurazioni diffuse sia dal presidente Andrzej Duda che dal premier Mateusz Morawiecki, il quale ha dichiarato che «la Polonia si prende cura dello Stato di diritto tanto quanto l’Unione Europea».
Cosa succederà adesso tra UE e Polonia?
Atteso che, alla luce degli ultimi fatti, la Commissione ha espresso la volontà di procedere con la famigerata opzione nucleare, spetta ora al Consiglio europeo formulare le proprie intenzioni in merito allo stato d’accusa di un Paese membro, che andranno approvate con la maggioranza di almeno i 4/5 dei votanti. Il tutto, da procedura, previo placet del Parlamento europeo, arrivato il mese scorso dopo una votazione in cui ha prevalso la linea intransigente con 438 preferenze a 152.
Nelle more dell’iter disciplinato dall’articolo 7, la Commissione ha concesso alla Polonia tre mesi per modificare la legge contestata, con la promessa di ritirare la procedura di opzione nucleare al raggiungimento di un accordo.
La notizia della messa in atto della “opzione nucleare” ha senza dubbio indispettito Varsavia, che attraverso i suoi portavoce ha parlato di “indebite pressioni” da parte di Bruxelles, che avrebbe agito mossa da ragioni più politiche che di salvaguardia dei principi democratici.
A questo proposito, però, va detto che negli ultimi tempi la Polonia aveva già messo a dura prova la pazienza delle istituzioni comunitarie, che hanno tollerato provvedimenti come la riforma delle strutture elettorali – che ha tolto potere agli organi indipendenti di controllo a tutto vantaggio dei funzionari di governo polacchi – nonché un discutibile laissez-faire dello stesso governo nei confronti di un corteo di diverse migliaia di estremisti di destra, che il mese scorso avevano marciato sulle strade della capitale, scandendo cori e vestendo simboli antisemiti.
La riforma della giustizia, pertanto, è stata soltanto l’ultima di una serie di provocazioni che hanno costretto l’Unione Europea a prendere una posizione netta e univoca contro la deriva estremista che si sta impossessando della Polonia, le cui rimostranze, è il caso di puntualizzare, non hanno la minima ragion d’essere.
Se è vero, infatti, che ogni membro UE ha il diritto di mantenere una certa autonomia negli indirizzi di governo, non è possibile consentire che tali scelte si pongano al di sopra e in conflitto con i principi democratici, che costituiscono le fondamenta dell’Europa unita, come tali accettate da tutti gli stati aderenti.
Ogni deviazione da tali principi è giusto e auspicabile che sia stigmatizzata e ostacolata con ogni mezzo, compresa la possibilità di sanzionare i governi come quello polacco.
Non bisogna dimenticare, dopotutto, che in passato e per gli stessi motivi – pur nella diversità delle premesse e dei diritti da tutelare – è stato negato l’ingresso in Europa a paesi come la Turchia, sostenitrice di valori troppo diversi da quelli che l’UE intende portare avanti.
Se il caso della Polonia non dovesse trovare una soluzione condivisa in tempi brevi, è tutt’altro che impensabile uno scenario che conduca Varsavia fuori dall’UE, nell’ambito di quella che i commentatori cominciano già a chiamare “Polexit”, in aperta analogia con la dipartita britannica.
Rispetto alla Brexit, tuttavia, non si tratterebbe di un’uscita inaspettata né impopolare, ma, alla luce di quanto premesso, naturale e persino inevitabile alle attuali condizioni.
Carlo Rombolà