“Comune”: le accezioni che questo aggettivo può assumere, nel contesto del dibattito politico e giuridico, sono diventate tante. Con l’affermazione del concetto di “beni comuni”, mai come in questi ultimi anni la semantica, l’uso polivalente di parole e locuzioni, è stato al servizio dell’evoluzione socio-politica-giuridica: questo progressivo processo ha riguardato, appunto e in particolare, il concetto stesso di “comune”.

In principio era “il Comune”: nella versione sostantivata, l’aggettivo sancisce costituzionalmente un’istituzione, particella amministrativa dello Stato, il nucleo dell’impegno civile, il luogo di esercizio primo e immediato della democrazia rappresentativa, dei diritti di cittadinanza da parte di una comunità che, prima ancora che politica, è culturale e sociale: il “Comune”, cui segue la specificazione “di…”, col nome di una città, di un paese, è collettività di interessi, almeno in linea di principio, omogenei, è il luogo politico, legislativo e amministrativo, dove si ritrova un corpo sociale concentrato, appunto, in uno spazio che prima che fisico è persino spirituale, il “territorio”.

Tuttavia, ormai il “Comune” non basta più. La sperequazione delle risorse (economiche, innanzitutto, che poi significa sperequazione nell’accesso a buona parte di qualsiasi altra risorsa, materiale o culturale) ha determinato la frantumazione crescente della comunità sintetizzata proprio dal “Comune”, rendendolo, perciò, meno “comune”. Le bufere antipolitiche e antistituzionali hanno determinato la necessità di rivisitare questo stesso concetto: nuove istanze avanzate da una popolazione sempre più separata dalla forbice sociale, da soddisfare in modo sempre più immediato e diretto, ha creato la spinta ideologica verso la rivisitazione, esaltazione e quasi rivendicazione del “comune”. Il concetto ha avuto bisogno di specificarsi ulteriormente, attraverso il ricorso a nuove varianti semantiche prima, normative poi, di se stesso.

Napoli, in questo senso, è oggettivamente stata, a partire dal 2011, la sede sperimentale dell’introduzione di interpretazioni nuove del “comune”, causa gli indirizzi politici dell’Amministrazione De Magistris.

Dopo la prima, sorprendente elezione dell’ex magistrato, inizia un esperimento che fa rumore in ambienti politici, accademici, culturali: si parla di “bene comune” come nuova categoria giuridica e amministrativa di particolari beni, appunto, di natura materiale o immateriale. Cos’è un “bene comune”? La teorizzazione del concetto viene dagli Stati Uniti, sviluppata, tra gli altri, anche da una Premio Nobel: nonostante ciò, si tratta di una categoria che non è semplice né immediato sintetizzare. Se il punto di vista interpretativo, ad esempio, è quello della sottoposizione di un bene ad un regime giuridico di controllo e gestione da parte di un soggetto istituzionale , allora si può dire che esisteva già l’istituto del “bene pubblico”: cosa conferisce, perciò, in più al bene che non sia già eventualmente “pubblico”, l’aggettivo “comune”?

In estrema (e imprecisa) sostanza, tra “pubblico” e “comune” cambia il soggetto istituzionale di riferimento che sovrintende al bene e una certa modalità di accesso al bene. Il bene comune è un bene che viene gestito, senza (troppe) intermediazioni da una comunità, per fini esclusivamente comunitari. “Dal basso”, come va di moda dire. È un bene che viene affidato ad alcuni soggetti determinati, in maniera da non limitarne accesso e fruizione incondizionata al corpo sociale nella sua piena interezza; il quale corpo sociale, ne ricava il vantaggio in termini di fruizione materiale, culturale o “spirituale”. Questo vantaggio è connaturale al bene, ma senza la sua caratterizzazione di “comune” o, comunque, stante la classica caratterizzazione di “pubblico”, faticherebbe o sarebbe impossibilitato ad emergere. Il concetto materialistico di “bene”, quindi, grazie alla nuova accezione del “comune” tende ad assumere una vocazione nuova: con un gioco di parole, si potrebbe dire che lo scopo del “bene comune” è nient’altro che il bene comune.

Nel 2011, lo sviluppo dell’idea di “bene comune” approda dunque alla neo eletta giunta De Magistris grazie al Prof. Alberto Lucarelli, ordinario di Diritto Costituzionale alla “Federico II”. Lucarelli, esperto di questi temi, sperimenta le sue teorie in particolare nel campo della gestione del bene supremamente comune: l’acqua. È coautore del quesito referendario contro l’apertura alla privatizzazione dell’acqua pubblica, è molto stimato a sinistra. De Magistris lo sceglie per fare l’Assessore ai Beni Comuni, carica che viene creata dal nulla, per porre in pratica quel programma politico che, dalle pagine dei testi universitari e dai dibattiti dei giuristi, sta per prendere forma in una Napoli in ginocchio, per la crisi economica, la mala gestione pubblica ed il debito.

Nasce l’esperimento “Acqua Bene Comune”. La Giunta modifica lo Statuto comunale e fa la prima comparsa, al secondo comma dell’art. 1, il concetto istituzionalizzato di “bene comune”. Alla trasformazione normativa segue quella dell’ARIN, che da SpA diventa consorzio pubblico e si trasforma, appunto, in ABC. Nasce il “Laboratorio Napoli per una Costituente dei beni comuni”: De Magistris non si accontenta, ha il vento in poppa e vuole allargare l’inquadramento giuridico dei beni comuni, quindi si inventa un think tank per farlo. Allo stesso modo, è il turno, qualche tempo dopo (nel 2013) dell’Osservatorio sui Beni comuni, la cui presidenza viene affidata allo stesso Lucarelli che, nel frattempo, era uscito dalla giunta per candidarsi alle politiche nella fallimentare lista di Ingroia, con la benedizione di De Magistris, evidentemente interessato ad una dimensione nazionale del consenso al suo progetto politico.

Il progetto normativo sui “beni comuni” va avanti. Le numerose delibere di giunta, dal 2012, inquadrano con sempre maggiore specificazione il nuovo istituto: lo ammantano di quel significato superiore cui si accennava in precedenza. “Bene comune” non come categoria di gestione amministrativa, ma manifesto della nuova partecipazione cittadina. Il “bene comune” diventa lo strumento secondo cui «ogni cittadino deve concorrere al progresso naturale e spirituale della Città». De Magistris nel 2013 fa adottare al Comune, dandole così significato normativo, la “Carta dello Spazio Pubblico” elaborata dalla Biennale dello Spazio Pubblico. Si sta compiendo un salto di qualità: dall’acqua, dal bene materiale che è contenuto, si passa al luogo, allo spazio, che pure è fisico, ma è contenitore. Dentro ci si può mettere qualcosa che, per il suo significato “spirituale”, renda lo spazio comune “bene comune”. Comincia il dibattito su chi, quel qualcosa, ce lo debba mettere e su come sceglierlo: è l’autorità pubblica, secondo la stessa “Carta”, che deve individuarlo.

Qualche pezzo però si perde per strada. Lucarelli entra in polemica con De Magistris denunciando la sostanziale inutilità dell’Osservatorio. La pietra della discordia si fa più pesante considerando che, a quel tempo, un sindaco inibito dalla legge Severino aveva fatto anche indirettamente rimuovere il vertice ABC, nominato dallo stesso Lucarelli. «Quest’atto (…) è in linea con il processo regressivo dell’attuale giuntaaveva poi dichiarato LucarelliSi chiude di fatto un percorso avviato con i referendum, e con l’idea che il Comune potesse attuare direttamente principi costituzionali (…) l’Osservatorio sui Beni comuni (…) tra l’altro produce atti che poi restano nei cassetti della giunta di Palazzo San Giacomo». De Magistris perde l’ideologo, ma poco male: la base normativa per la prosecuzione del cammino politico sui beni comuni è già pronta per essere sfruttata, comincia un nuovo capitolo. L’acqua non basta più, il concetto deve assumere una consistenza diversa: serve alla città, serve alla comunità, ma serve pure a De Magistris.

Nel 2014 la Giunta decide di trasformare gli “spazi abbandonati” in beni comuni. Nella delibera del 24 aprile si legge che «i beni del patrimonio comunale che versino attualmente in uno stato di inutilizzo o di parziale utilizzazione e che la collettività percepisce come “beni comuni”, in quanto potenzialmente idonei ad una fruizione collettiva e per il soddisfacimento di interessi generali», verranno affidati in gestione a soggetti identificati attraverso procedure di evidenza pubblica e subordinatamente all’approvazione di un “Piano di gestione” che, com’è ovvio, non prevede alcun fine di lucro. Solo i «beni immobili o di terreni di proprietà comunale», cioè i beni di proprietà pubblica, vengono coinvolti nell’operazione, peraltro «tenendo conto di esperienze di governance di beni comuni già esistenti sul territorio cittadino».

In sostanza, per diventare “legalmente” bene comune, un certo spazio (di natura eterogenea, con gli sponsor parlavano all’epoca di immobili urbani come di aree coltivabili), magari già gestito (a che titolo non era detto, ma è facile immaginare che fosse a titolo di occupazione) da soggetti che vi producono un’attività “percepita”, “avvertita” dalla comunità come propedeutica al “bene comune”, può rimanere esattamente com’è, a patto che gli occupanti vengano legittimati a svolgere la propria attività dall’approvazione del “Piano di gestione”. I soggetti associazionistici che da tempo occupano beni immobili demaniali, i cosiddetti centri sociali, esultano: il “bene comune” consiste anche, a questo punto, nella loro eterogenea attività di occupazione, alla faccia dei periodici sgomberi. La loro istituzionalizzazione, attraverso lo strumento di una Convenzione col Comune, gli consentirà anche di uscire finalmente dalla semiclandestinità politica (o politicizzata, a seconda dei punti di vista).

Il processo però è ancora lungo e complesso. Immobili come l’ex Asilo Filangieri accedono immediatamente alla nuova vita; altri sono invece appartenenti al demanio dello Stato. Il Comune li acquisisce a titolo gratuito a fine 2015, consentendo agli occupanti di avvantaggiarsi del nuovo interlocutore. Nel giugno del 2016 ci sono quindi le elezioni amministrative. Si propone la questione forte di Bagnoli, che pure comitati e associazioni, che hanno diversi luoghi di interesse sul territorio, puntano a far riconoscere come “bene comune”, in opposizione al piano di riqualificazione della cabina di regia del Governo nazionale che è considerato eccessivamente sbilanciato sugli investimenti privati.

De Magistris rivince le elezioni con larga maggioranza percentuale (ma con numeri bassi), grazie all’imprescindibile consenso di queste componenti, alimentato dal mito della città ribelle e del “bene comune”.

Luigi De Magistris, sindaco di Napoli. Foto di Bruna Di Dio

Sospetti di abbandono dell’eterodossia dell’istituto, allo scopo di conferirgli una nuova funzione “clientelocentrica” si erano già impadroniti della battaglia politica, in cui i contendenti di centrodestra e PD, già delegittimati per altri motivi, comunque non erano riusciti a prevalere. Con l’inizio del secondo mandato, vengono saldati i primi conti. Nell’estate 2016, vengono immediatamente resi “beni comuni”, tra gli altri, l’ex Lido Pola, l’ex OPG/Ospedale Psichiatrico Giudiziario l’ex Carcere Minorile Filangieri, l’ex Scuola Schipa. Tutti immobili già in mano a collettivi e associazioni di varia natura e composizione, autori di occupazioni, riattamenti e risistemazioni (autorganizzate e autofinanziate). La dottrina del “bene comune” riscatta questi luoghi dalla condizione formale di illegale abusivismo: fermo restando, però, che la manutenzione e gli oneri di gestione restano all’Amministrazione.

Ex Opg, foto di Bruna Di Dio
Lido Pola, foto di Bruna Di Dio
Lido Pola, foto di Bruna Di Dio

De Magistris però a questo punto diventa un po’ meno di lotta e un po’ più di governo. Già a fine 2016 usa il pugno di ferro sulle nomine ABC, che purtroppo è in seria difficoltà finanziaria e gestionale, irritando quegli stessi comitati che avevano aiutato a fondarla. Nel 2017 affina e firma l’intesa su Bagnoli col Ministro De Vincenti; affronta l’emergenza ANM aprendo all’ingresso di capitali privati. A riportarlo alle origini, quasi come una benedizione di fronte a una prima emorragia di consensi, c’è allora il decreto, poi legge Minniti. Il capitolo sulla rigenerazione urbana e sulla caratterizzazione dei poteri dei sindaci in caso di occupazioni abusive di immobili agita quel mondo associazionistico che ancora non si è visto riconoscere lo status di “bene comune”: che farà il nuovo De Magistris?

Semplicemente, ancora nulla. Mentre il dibattito sui “beni comuni” riparte, coinvolgendo sia le associazioni già vittoriose nella loro battaglia per la legittimazione, sia quelle che invece premono e manifestano per un riconoscimento formale del loro status, si scopre che, in realtà, ora il “nemico” più pericoloso è un altro e veste la toga del giudice. Le stesse assegnazioni dei beni con la delibera postelettorale dell’estate 2016 finiscono sotto la lente della magistratura contabile regionale e della Procura di Napoli. Si ipotizza il mancato rispetto delle procedure di evidenza pubblica per la stipula delle Convenzioni, che inficerebbe il principio amministrativo della messa a reddito del bene pubblico (o comune, a questo punto) e configurerebbe persino un abuso d’ufficio accanto al danno erariale per un comune in eterno predissesto.

L’impressione è che, in questo calderone normativo di recente concezione, tutto “a chilometro 0”, su cui ormai molti alimentano carriere politiche e accademiche nella speranza di capirci (o di non far capire) qualcosa, il vituperato Minniti e i suoi provvedimenti parapolizieschi per ora c’entrino poco: a ben vedere hanno solo efficacia dichiarativa e a priori non compromettono nulla che i sindaci, in prima persona e secondo proprie esigenze politiche (volendo più o meno fare gli “sceriffi”), non vogliano compromettere. La questione, ora come ora, sembra essere più se sia legittimo consentire ad uno piuttosto che ad un altro di occupare un immobile pubblico realizzando proprie attività arbitrariamente intraprese (per quanto con fini anche rispettabili), senza che il sindaco applichi il dispositivo Minniti prima di una prossima delibera di giunta sui beni comuni.

Perciò, valgono sempre le parole di Stefano Rodotà, quando diceva: «se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, se ad essa viene affidata una sorta di palingenesi sociale, allora può ben accadere che perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità “comune” di un bene può sprigionare tutta la sua forza».

Ludovico Maremonti

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