Cari lettori, buona domenica e bentrovati al brainch. Questa mattina voglio essere zen (e quando mai), per riflettere su alcune gravi storture che si avvitano intorno alle nostre menti. Non per fare della discriminazione, ma il paradigma capitalista ha imposto al mondo, e a noi occidentali in modo particolare, uno stile di vita folle e deleterio, molto oltre i limiti dell’etica e della sanità mentale.
Il riposo fa bene, dopotutto anche il Creatore al settimo giorno si riposò e noi, sulle sue orme domenicali, destiniamo queste poche ore a poltrire o, comunque, a pensare quanto sarebbe bello sfasciarsi su un divano ad attendere la biodegradazione.
Un’opinione figlia dei ritmi forsennati della quotidianità e dell’horror vacui che logora le nostre esistenze nell’ansia da fallimento. Ottemperare ai propri obblighi, competere col prossimo come ad una gara da talent show e rifulgere di splendore al cospetto del resto del mondo: questi i vangeli del terzo millennio, queste le identità culturali, sociali e parasociali che trasciniamo con stanca indolenza lungo i giorni.
Non a caso, alcune discipline provenienti dall’Oriente hanno attecchito con relativa facilità anche da noi, sebbene più come moda che come filosofia, in un ritaglio intimo di distacco dalla frenesia borghese della metropoli, un volo d’ali lontano dalle gabbie di cemento che ci attorniano e soffocano. Yoga e Pilates, Ayurveda e Reiki, Qi-Gong e Zazen, oltre ad essere termini molto fighi per darsi un tono con parenti e amici, rappresentano, in modo a volte spontaneo a volte occasionale, uno svincolo dai cliché suburbani, un riappropriarsi di spazi interiori – laddove di esteriori non ne restano più – come riscoperta dell’emancipazione spirituale.
Può bastare? Naturalmente no; almeno fino a quando non avremo imparato a destrutturare le nostre architetture mentali in termini più semplici, essenziali: un ritorno alle origini della semplicità, attraverso l’accettazione non ostile di paranoie, fobie, fallimenti, difetti, insicurezze ed errori. Tutto quanto, insomma, viene vissuto come un “fardello” esperienziale che appesantisce e rallenta il nostro cammino successivo, fino a bloccarlo del tutto in casi estremi.
Non voglio intendere con questo che europei ed americani siano dei pazzi schizofrenici e che gli orientali posseggano la chiave della saggezza. Proprio i giapponesi, che dello zen furono artefici e maestri, hanno ceduto alla tentazione di trasformarsi in automi meccanizzati piegati alle logiche del mercato e del profitto, e stesso dicasi per altre realtà del profondo Est.
Insomma, con un detto di oraziana memoria, la virtù sta nel mezzo. Come sempre. E saper conciliare e dosare ritmi e tempi è una qualità smarrita. D’altronde, che valore avrebbe un’esistenza condotta solo ed esclusivamente per soddisfare aspettative altrui? Che giovamento si può trarre nel realizzare desideri imposti, nel temere fantasmi surreali, nel trasformare invece che contemplare? Lascerò che sia una storiella di Osho a rispondere. Nel frattempo, vi auguro buona domenica e vi aspetto al prossimo brainch.
In un villaggio un uomo impazzì. Era un pomeriggio assolato e lui camminava tutto solo per la strada. Camminava veloce, cercando di non aver paura… Quell’uomo era solo, e si spaventò al punto da mettersi a correre. Quando si mise a correre, sentì il suono dei passi rimbombare precipitosi dietro di sé, e si spaventò ancor di più: forse qualcuno lo stava inseguendo. Allora, impaurito, si guardò alle spalle con la coda dell’occhio e vide una lunga ombra che lo inseguiva. Era la sua ombra, ma vedendo che gli correva dietro, corse ancor più velocemente. A quel punto non fu più in grado di fermarsi, perché più forte correva e più rapida l’ombra lo seguiva; alla fine impazzì. Ma certa gente venera anche i pazzi… Quando lo videro correre in quel modo per il villaggio, in molti pensarono che stesse seguendo qualche pratica ascetica di grande rilevanza. Non si fermava mai, se non nel buio della notte, quando l’ombra spariva facendogli credere che nessuno lo inseguisse più; all’alba ricominciava a correre. Alla fine non si fermò più neanche di notte: pensò che, malgrado la distanza percorsa di giorno, mentre riposava l’ombra lo raggiungesse e ricominciasse a inseguirlo al mattino. Allora si mise a correre anche di notte; impazzì completamente: non mangiava, né beveva. Migliaia di persone lo osservavano, ricoprendolo di fiori o porgendogli pane o acqua. La gente cominciò a venerarlo ancor di più; a migliaia lo rispettavano. Ma lui impazzì sempre più, finché un giorno stramazzò a terra e morì. Gli abitanti del villaggio in cui morì gli eressero una tomba all’ombra di un albero e chiesero a un vecchio mistico della zona cosa scrivere sulla lapide. Il mistico dettò alcune righe. Da qualche parte, quella lapide esiste ancora. Il mistico vi fece scrivere: «Qui giace un uomo che ha sprecato tutta la sua vita fuggendo dalla propria ombra».
Emanuele Tanzilli
@EmaTanzilli
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