Ciò che a Renzi non manca di sicuro sono i riflessi. La sua politica tutta comunicazione e gestione del potere soprattutto in questi ultimi giorni, con lo scontro su articolo 18 e diritti dei lavoratori, si sta dimostrando una spremuta di tutte le formule più efficaci inventate negli ultimi anni, aggiornate alle condizioni del dibattito pubblico italiano contemporaneo.

Ogni volta che la sua azione di governo ha iniziato a sembrare stagnante, Renzi con riflessi fulminei ha mosso le acque con annunci a raffica, colpendo dove la maggioranza dell’opinione pubblica e i media sono più sensibili. Ha indicato dei nemici, né troppo precisi né troppo vaghi (gufi, conservatori, burocrati) responsabili delle cose che non ha fatto. Nei giorni scorsi ha inviato un messaggio a tu per tu al paese-telespettatore, su youtube (e di conseguenza sui telegiornali della sera), che a parte il registro non è molto distante dalla formula delle vecchie “cassette” di Berlusconi. Ha infine dispiegato la sua narrazione dello scontro in atto: non parti di società diverse, con interessi diversi, da comporre in qualche modo nel quadro democratico, ma “chi vuole fare le cose” contro chi difende interessi personali, o corporativi. Rileggendo in una chiave più inclusiva e rassicurante la retorica di Beppe Grillo.

Con un attacco alla CGIL malizioso come fin’ora nemmeno i governi di Forza Italia avevano osato, dice di pensare a “Marta, 28 anni”, che vuole il diritto alla maternità, a “Giuseppe, 50 anni” senza cassa integrazione o ai piccoli artigiani.
Ma l’articolo 18, così come gli altri diritti sul lavoro, come tutti potranno capire non sono delle quantità “finite”, da distribuire, non tolgono niente a Marta e Giuseppe, a cui si potrebbe semplicemente dare finalmente maternità e cassa integrazione, e che anzi si sono visti fin’ora maltrattare dai governi precedenti e anche da questo stesso con il decreto Poletti (non certo dalla CGIL) .
Che l’articolo 18 non c’entri con l’occupazione ormai lo dicono anche i renziani, e non è nemmeno vero che secondo l’Europa questa riforma sia necessaria per rilanciare l’economia, le analisi europee trattano di mercato del lavoro ma vanno ben oltre comprendendo innovazione, competitività, specializzazione delle imprese. E se il “contratto a tutele crescenti” deve essere realmente “unico”, cioè cancellando ogni altro contratto precario, che senso ha avuto il recentissimo decreto Poletti che ha appena potenziato questi ultimi? E le “tutele”, concesse dopo ancora ignoti anni di attesa in condizioni di assenza di diritti, quali saranno?

Quindi a me verrebbe da pensare che piuttosto che a Marta e Giuseppe, Renzi stia pensando ad Angelino, 43 anni, segretario di partito, che ha fatto tanti sacrifici per dargli sostegno e che ora pretende una contropartita; a Pietro, 65 anni, giuslavorista, che sogna da anni una riforma del lavoro che quando è stata applicata non ha funzionato ma lui ci crede tantissimo; a Pier Luigi, 63 anni, dirigente di partito, che deve capire che i tempi sono cambiati e che ora nel PD comanda lui e non fa prigionieri e anche a Jyrki, 43 anni, vice-presidente della commissione europea, molto di destra e molto influente per ottener quella approvazione in Europa di cui Renzi ha bisogno.
Ma soprattutto mi viene da pensare che voglia parlare, come ha spiegato bene Ilvo Diamanti su Repubblica, a quella consistente fetta di cittadini, elettori tradizionali di destra, che hanno costituito un terzo di quel 40,8% su cui si sta fondando il nuovo PD renziano che iniziava un po’ ad abbandonarlo.

Insomma, l’espressione di Camusso che accusava Renzi di voler prendere uno “scalpo” da esibire mi pare quanto mai precisa.
L’unica cosa che pare “ideologica”, nel senso deteriore del termine, è l’atteggiamento con cui si è voluto porre la questione del lavoro in Italia, con slogan cari alla destra e con la voglia di indicare un nemico in chi rappresenta i lavoratori.
Parlando persino di “Apartheid”, alludendo che se Marta, precaria, è in un ghetto la colpa sia di sua madre, impiegata alle poste, quando invece non è così. Ad aver creato il ghetto è stato chi ha pensato che per far spendere meno le imprese era necessario togliere potere contrattuale a chi lavora, senza pensare che così si crea anche un lavoro peggiore e nuove generazioni più povere e dal futuro incerto.

Si potrebbe invece lanciare una sfida sana, vera, a tutte le parti sociali nel cercare di risolvere finalmente i danni fatti in quasi 20 anni di “flessibilità”, e di tornare a forme contrattuali e ammortizzatori sociali che abbraccino tutti, estendendo i diritti per creare lavori migliori, che permettano a noi precari, alle nuove generazioni di lavoratori di investire su noi stessi e di conseguenza sull’Italia.

La CGIL scenderà in piazza questo autunno e credo possa essere una occasione importante per rimettere la discussione su questo piano. Servirà, è vero, una maggiore attenzione da parte dei lavoratori a tempo indeterminato nel non lasciare indietro gli altri, anche in sede di contrattazione. Così come saremo noi precari, di ogni ordine e grado a doverci far sentire senza aspettare che siano altri, che non sono nelle nostri condizioni, a fare tutto per noi. La via di uscita non si troverà con la ghettizzazione di una parte così come non si troverà con la lotta e l’ostilità tra persone che anche se con contratti diversi e con diritti diversi fanno tutto sommato gli stessi lavori e alla fine hanno tutti lo stesso interesse nell’avere un paese più giusto ed equo. Il mondo del lavoro va cambiato, ma va cambiato in meglio, e la solidarietà tra lavoratori a tempo indeterminato e precari deve servire a stare  tutti meglio, non a trascinare tutti nell’Apartheid.

Alessandro Squizzato

9 Commenti

  1. L’articolo si basa sul presupposto, sbagliato, che i “diritti” sarebbero qualcosa di illimitato, che si può distribuire a piacimento senza togliere niente a nessuno. In realtà anche un bambino capisce che se è molto più difficile licenziare, se è molto più costoso avere un dipendente (per via dei tanti “diritti”, come maternità ed altri) allora le aziende sono disincentivate dall’assumere (quindi non si capisce su quale base si affermi che “l’articolo 18 non c’entri con l’occupazione”). In realtà è piuttosto documentato che nei paesi dove c’è una maggiore flessibilità in uscita la permanenza media nello status di disoccupato è molto più breve di quelli, come l’Italia, in cui c’è una grande difficoltà al licenziamento. Questo inoltre ha forti ricadute sulla produttività (chi ritiene -a ragione- il proprio status di occupato una condizione immutabile o quasi non è certo spronato a dare il massimo, anzi in molti casi darà il minimo possibile, ammesso che dia qualcosa). Senza volersi avventurare in discussioni ideologiche di scarso interesse (e utilità) basta studiare un minimo gli algoritmi che gli ingegneri gestionali usano per stabilire se conviene o meno assumere un dipendente. Tra le varie voci di cui tengono conto c’è appunto il costo del licenziamento e dei vari “diritti”, rendendo evidente che quanto più queste voci salgono tanto meno vantaggioso diventa assumere, fino ad arrivare al punto in cui assumere non conviene affatto e conviene piuttosto rinunciare ad un aumento di produzione. Quindi è chiaro che i “diritti” elargiti ad alcuni non sono un bene illimitato e dal costo nullo, ma vengono pagati da altri con la perdita di altri “diritti”, nella fattispecie quello ad un lavoro, ed in generale con un peggioramento della situazione economica complessiva pagato da tutti.

    • Vorrei solo farti notare che l’articolo 18 non è affatto un impedimento al licenziamento, ma semplicemente una garanzia contro il licenziamento ingiusto (e individuale) che hanno, certo, troppo pochi lavoratori in Italia.
      Non vedo connessione tra l’occupazione, che dovrebbe essere collegata ad un utilità dell’imprenditore alla produzione – e non ad un elemosina gentilmente concessa -, e licenziamento ingiusto.
      Per il licenziamento ingiusto la giurisprudenza è molto favorevole alle imprese e molto poco ai lavoratori: avevo letto una statistica obiettivamente sorprendente su quanto poche sono le cause vinte dai lavoratori in queste situazioni. Dopo la riforma Fornero, l’articolo 18 è stato sostanzialmente svuotato, affidando al giudice ancora più discrezionalità e abbattendo gli ultimi vincoli effettivi per le imprese. Ora se un’impresa non ti licenzia per il tuo colore della pelle, ha quasi la certezza che in fabbrica non ti rivedrà mai più.
      Diamo per scontato che sia normale per un impresa licenziare qualcuno per far entrare qualcun altro, e che affinché entri qualcun altro sia assolutamente e ovviamente necessario licenziare il primo. “Lo sa anche un bambino”, dicono. Secondo me a parità di qualifica e nel rispetto del contratto di lavoro e dei doveri di legge, non c’è assolutamente motivo che un lavoratore venga sostituito con un altro, ovvero venga messo sulla strada. E non c’è alcun motivo per pensare che sia necessario che qualcuno “sulla strada” ci stia, piuttosto viene da chiedersi se sia giusto un sistema che funziona solo a scapito di qualcuno che ne resta fuori senza motivi di incapacità o pigrizia, solo perché nel gioco delle sedie non è riuscito a conquistarsi una seggiola.
      Tra l’altro, “anche un bambino sa” che aumentare l’età pensionabile a 70 anni toglie lavoro ai giovani, ma in questo caso il bambino non lo si ascolta.

      • Il fatto che il giudice abbia maggiore discrezionalità non è affatto una cosa positiva, per le aziende è importante avere regole certe, in modo che sia possibile calcolare con esattezza i costi e le conseguenze di ogni decisione. Aggiungere questa variabile aleatoria del giudizio del giudice è deleterio. Ad ogni modo la maggior parte dei paesi europei non prevede il reintegro oppure lo prevede ma non è obbligatorio, a conferma che come al solito siamo delle mosche bianche.

  2. In realtà lei dà per scontate cose che non lo sono, le sue posizioni anzi sono piuttosto isolate anche tra i sostenitori di questa riforma. Lasciando perdere Renzi che fa il suo mestiere e sul tema ha assunto posizioni diverse e contrarie, può trovare dichiarazioni di ogni tipo che dice che stanno facendo questa riforma “per i precari” e non per rilanciare l’occupazione. Così come può trovare numerosi sondaggi sulle priorità per le imprese italiane (interviste, dichiarazioni ecc…) che confermano che le priorità per investire sono semplificare sono burocrazia, corruzione e credito. Ancora, lei dice che negli altri paesi c’è più flessibilità. Non è vero. In Germania ce ne è molto meno. Ancora, fosse vero quello che afferma lei, fin’ora avremmo dovuto registrare un miglioramento dell’occupazione, visto che le riforme che hanno ridotto i diritti sono state molte e distribuite in quasi 20 anni. L’articolo 18 è già quasi completamente smantellato. Il decreto Poletti ha eliminato la causale nei rapporti di lavoro a termine, non so se ci rendiamo conto, eppure l’occupazione crolla, assieme ai salari. Lei afferma una cosa e i fatti l’esatto opposto. Mi conferma che paradossalmente su questo tema l’ideologia (o più correttamente un approccio dottrinario), non venga dalla sponda marxista ma da destra.

  3. In realtà lei dà per scontate cose che non lo sono, le sue posizioni
    anzi sono piuttosto isolate anche tra i sostenitori di questa riforma.
    Lasciando perdere Renzi che fa il suo mestiere e sul tema ha assunto
    posizioni diverse e contrarie, può trovare dichiarazioni governative di ogni tipo
    che dicono che stanno facendo questa riforma “per i precari” e non per
    rilanciare l’occupazione. Così come può trovare numerosi sondaggi sulle
    priorità per le imprese (oltre a interviste, dichiarazioni ecc…) che
    confermano che le priorità per investire sono
    burocrazia, corruzione e credito. Ancora, lei dice che negli altri paesi
    c’è più flessibilità. Non è vero. In Germania ce ne è molto meno.
    Ancora, fosse vero quello che afferma lei, fin’ora avremmo dovuto
    registrare un miglioramento dell’occupazione, visto che le riforme che
    hanno ridotto i diritti sono state molte e distribuite in quasi 20 anni.
    L’articolo 18 è già quasi completamente smantellato. Il decreto Poletti
    ha eliminato la causale nei rapporti di lavoro a termine, non so se ci
    rendiamo conto, eppure l’occupazione crolla, assieme ai salari. Anzi le aziende virtuose, con risultati di eccellenza si quaificano anche per buone condizioni di lavoro, perché con la stabilità c’è ache un investimento sulle competenze e la formazione. Lei
    afferma una cosa e i fatti l’esatto opposto. Mi conferma che
    paradossalmente su questo tema l’ideologia (o più correttamente un
    approccio dottrinario), non venga dalla sponda marxista ma da destra.

    • Quindi poiché in Germania ci sarebbe meno flessibilità sarebbe falsa l’affermazione che “in altri paesi c’è più flessibilità”? Mi pare un esempio palese di generalizzazione indebita, classica fallacia logica. E c’è meno flessibilità anche in Svizzera, USA, UK, Danimarca e Svezia? Solo per fare qualche esempio di paesi che se la passano molto meglio di noi e hanno una disoccupazione prossima allo zero o quasi.

      • In alcuni si in altri no, mi pare che li abbia pescati abbastanza a caso. Sullo stato sociale della Svezia ci metto la firma ora. Non so che dirle, mi pare abbia un sacco di preconcetti e poche informazioni precise che li supportano. Il decreto poletti ha tolto la causale ai contratti a termine, lì l’articolo 18 non c’è, se il limite all’assuzione fosse quello avrebbero l’imbarazzo della scelta per assumere. Non le viene il sospetto che se le aziende non hanno lavoro e nel paese non c’è domanda qualsiasi sia il contratto non assumono lo stesso? Sul resto le ha risposto ‘roberto’ anche meglio di me.

        • Non mi pare proprio, li ho pescati tra quelli dove c’è una flessibilità sul mercato del lavoro piuttosto conclamata, cui corrisponde una disoccupazione bassissima. Sullo stato sociale della Svezia si può dire tanto, ma c’entra poco col discorso del lavoro: quel che è certo è che in Svezia è molto più facile licenziare. La causale per i contratti a termine mi pare una sciocchezza, se un’azienda vuole assumere qualcuno per sei mesi è solo un bene, meglio un posto di lavoro di sei mesi che nessun posto di lavoro. Non vedo perché ostacolare la cosa con ulteriore burocrazia che scoraggerebbe ulteriormente le assunzioni, più di quanto non siano già scoraggiate dalla condizione economica attuale. Sicuramente di lavoro ce ne sta poco, ma irrigidire il mercato del lavoro aggrava ulteriormente la situazione, ed è francamente talmente evidente che non ci sarebbe neanche bisogno di parlarne.

          • Rapporto lavoro – stato sociale: se il lavoro non è continuo o garantito serve uno stato sociale forte che integri. Se questo non c’è, come in Italia, si fanno solo danni. Danni che poi pagherà anche lei perché con la riforma di Ichino dovrebbe essere lo Stato che poi va a dare i sussidi. In Danimarca, che ha una cosa simile e ha 3 abitanti, non sono riusciti a sostenerla ad esempio.
            Suila questione della causale non ha capito proprio quello che ho scritto, legga da capo.

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