Nel secondo anniversario dalla scomparsa di Giulio Regeni — che Amnesty Italia celebrerà in tantissime piazze di tutto il Paese — siamo andati ad incontrare Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, da sempre in prima fila nella battaglia verso la verità sul caso Regeni.
Che interesse avrebbe avuto la polizia di Al Sisi ad uccidere un giovane italiano che si trovava in Egitto per condurre delle ricerche universitarie?
«Da diversi anni in Egitto c’è una vera e propria ossessione per lo straniero: sia il singolo che l’organizzazione non governativa, specialmente quella che riceve fondi dall’estero. Queste persone, queste organizzazioni sono viste come una minaccia, un’ingerenza, un pericolo per la sicurezza. E Giulio era uno straniero minaccioso: parlava perfettamente arabo, si occupava di questioni economiche all’interno di questa ricerca che era un focus sul sindacalismo… Ora non è detto, e le indagini certo un giorno ce lo diranno, che fosse un obiettivo scelto e che fosse già stabilito che doveva morire sotto tortura. Però è anche vero che nella storia dei diritti umani in Egitto, quella recente, di “Giulii” e di “Giulie” ce ne sono stati tanti.»
Giulio Regeni a suo giudizio, è stato usato per fornire informazioni all’MI6 (l’Intelligence britannica) o questa è una delle informazioni complottistiche che girano sul web?
«Io penso che faccia parte di questa letteratura sempre più fiorente di cospirazionismo, di complottismo. È stato detto che Giulio era “il prototipo dell’intelligence culturale del XXI secolo”… sono delle infinite sciocchezze. Giulio era una persona di una straordinaria integrità morale. E se fosse stato una spia, se fosse stato riconosciuto come tale, non sarebbe morto; sarebbe, nel classico stile dello spionaggio, stato scambiato.
E neanche vale la pena di insistere su questo dal momento che persino le autorità egiziane a un certo punto hanno dovuto ammettere — lo ha detto il procuratore Nabil Sadek — che Giulio era un uomo di pace ed era venuto in Egitto in pace e senza secondi fini. Naturalmente questa teoria complottista fa il gioco di tutti coloro che non vogliono vedere, per mille interessi e mille motivi, i motivi per cui al Cairo si fanno sparire le persone, si torturano quotidianamente.»
Altri attivisti occidentali sono stati catturati ma non sono stati né torturati né uccisi, perché Giulio sì?
«Di cittadini stranieri che hanno passato brutti momenti in Egitto ce ne sono stati. Penso ai giornalisti di Al Jazeera, che sono stati in carcere per mesi, e un paio di loro non sono egiziani; penso ad un cittadino francese che è stato massacrato di botte nel 2013 in una prigione egiziana per motivi che non sono mai emersi; penso alle difficoltà che hanno altri attivisti per i diritti umani, magari di doppia cittadinanza — egiziana e di un altro paese — che hanno dovuto lasciare il Cairo per timore di ripercussioni.
Detto questo ovviamente, la caccia allo straniero non fa parte della politica nazionale, e c’è un lungo elenco di persone che hanno preceduto quello di Giulio. Però le circostanze storiche di quel periodo, l’interesse di Giulio, il fatto che aveva piena padronanza dell’arabo e soprattutto la ricerca che conduceva possono aver contribuito a prenderlo di mira e ad eliminarlo.»
Il Presidente del Consiglio Gentiloni ha affermato che il ritorno dell’ambasciatore al Cairo rappresenta un vantaggio per la ricerca della verità, molte organizzazioni umanitarie hanno invece parlato di “golpe d’agosto”. Lei cosa ne pensa?
«Che è stata una decisione prematura, intempestiva e discutibile anche nei modi e nello stile perché i genitori di Giulio hanno appreso la notizia pochi minuti prima che diventasse pubblica. Ci è stato detto che nell’anno e tre mesi di assenza dell’ambasciatore la verità non aveva fatto alcun passo avanti e che avrebbe fatto passi avanti col ritorno dell’ambasciatore. Ora, ad oggi, questi passi avanti noi non li vediamo.
Non che noi fossimo ossessionati da questa storia dell’ambasciata: quello che Amnesty International ha sempre sostenuto è che fosse necessario prendere tutta un’altra serie di misure, pure annunciate dal Governo italiano nel caso in cui l’Egitto avesse continuato a non collaborare in maniera soddisfacente. Nessuna di queste misure è stata presa: ne avessimo prese 10, tolta una ce ne rimanevano 9. Come segnali di inimicizia, di delusione, di arrabbiatura per la mancanza di collaborazione delle autorità egiziane, si poteva portare — e si può tuttora, e penso che bisognerà farlo — la violazione dei diritti umani subita da Giulio agli organismi internazionali delle Nazioni Unite che hanno a che fare con i diritti umani; sul piano bilaterale si potevano prendere delle misure come: congelare la vendita di armi, sospendere la collaborazione in materia giudiziaria e di polizia, non rimandare più i minori migranti egiziani che scappano dall’Egitto eccetera. E sarebbero stati segnali che a noi le cose così non stavano bene. Così non è. Capisco che ci sono dei dossier importanti: la cooperazione in materia di terrorismo, la Libia, il turismo… però un governo che deve scegliere se continuare a chiedere con forza la verità per Giulio oppure sistemare dei dossier importanti, è un governo molto debole.»
Qual è la responsabilità di Maha Mahfouz Abdelrahman (la tutor di Regeni, docente presso l’università di Cambridge)? Il suo recente interrogatorio implica una situazione poco chiara o è una semplice raccolta di informazioni?
«Noi abbiamo sempre sostenuto che le indagini dovessero procedere a 360 gradi, che chiunque avesse informazioni, testimonianze, documentazioni da dare o fornire avrebbe dovuto farlo, senza essere sollecitato. Si vedrà, le indagini diranno qualcosa sul ruolo di Maha Abdelrahman, se emergeranno responsabilità di tipo morale o anche di tipo civile. Ovviamente l’università di Cambridge ha paura di un’azione sul piano civile. Detto questo però dall’altra parte, al Cairo cioè dove Giulio è stato assassinato, ci sono delle responsabilità per crimini internazionali. Tortura, omicidio, sparizione. E quindi non esiste una “pista Cambridge” che è una pista alternativa se non addirittura la “vera pista”. Questo lo dicono soltanto coloro che hanno interesse a togliere l’attenzione dal Cairo e a spostarla su un obiettivo che è più facile colpire: se non riesci a chiedere la verità al Cairo, alla fine trovi una Cambridge oppure una tutor che è donna, araba e musulmana che è un obiettivo molto più facile.»
Tra i temi più controversi che riguardano il caso Regeni c’è quello del confine tra i diritti del privato cittadino, della sua famiglia e la ragion di Stato. Amnesty International ha preso una posizione molto decisa su questo, ci spieghi meglio.
«La spiego con le parole di un commentatore di un quotidiano del Cairo, naturalmente un quotidiano pro Al-Sisi, il quale dopo che l’Italia ha deciso di rimandare l’ambasciatore in Egitto, ha detto: “Questa è la vittoria della logica e della politica contro l’etica e le emozioni”. Io credo in una politica che è etica ed emozioni, altri credono alla ragion di Stato; e penso che un governo che abbia a cuore i suoi cittadini ed i diritti debba essere etico e provare emozioni. Quelle che proviamo noi, quelle che provano dolorosamente i genitori di Giulio.»
Intervista a cura di Simone Martuscelli