L’Europa è stata nuovamente colpita e gli attentati in Belgio hanno ricordato a tutti gli europei quanto il terrorismo jihadista non sia affatto una minaccia estinta, nemmeno in seguito all’arresto di Salah Abdeslam.
Le immagini di distruzione e morte cui avevamo assistito il 14 novembre ricompaiono, dinanzi all’incredulità generale.
Il commando dell’attentato di Bruxelles era costituito da quattro persone: i due fratelli Ibrahim e Khalid El Bakrauoi, fattisi esplodere rispettivamente all’aeroporto di Zaventem e alla metro di Maelbeek, e Najim Laachraoui, secondo kamikaze dell’ aeroporto, già indagato per le stragi di Parigi e probabile artificiere del gruppo. Si trattava di cittadini europei, appartenenti alla terza o quarta generazione di migranti, stanziatisi in Belgio all’inizio degli anni Sessanta.
Nelle città belghe, infatti, si sono formati, nel corso degli anni, numerosi quartieri-ghetto come Molenbeek e Schaerbeek a Bruxelles. Si tratta di quartieri arabi il cui 40% è formato da giovani che vivono in condizioni di disoccupazione e discriminazione. Si conta, infatti, che il Belgio abbia fornito 40 foreign fighters per ogni milione di abitanti.
Secondo Monica Esposito, dell’Università di Kent, l’attrazione di questi giovani ragazzi per la jihad è da ricercare nell’assenza di prospettive e ambizioni, dato l’isolamento sociale tipico dei ghetti in cui vivono. La jihad fornisce loro un progetto, contrariamente alla realtà materiale in cui si trovano.
Sharia4Belgium, è uno dei movimenti che coinvolge ragazzi nella jihad grazie a imam o persone che, ritornate dalla Siria, hanno il compito di formare i nuovi militanti. Nonostante nel febbraio 2015 vi siano stati processi e operazioni contro questa organizzazione, la sua presenza era evidente, dato l’attacco al Museo Ebraico di Bruxelles del 2014 e quello fallito sul treno Thalys che attraversa Parigi, Bruxelles ed Amsterdam, dello scorso anno. L’attenzione della polizia verso questi movimenti, però, non è recente.
Il problema che si è verificato, infatti, non è stato tanto nell’individuazione, quanto, piuttosto, nell’azione concreta.
Una cellula jihadista in Belgio, secondo la polizia, è nata addirittura nel 2010 a Dambruggestraat, quartiere di Anversa, una delle principali città della comunità fiamminga.
Le cellule jihadiste in Europa si sedimentano nei luoghi in cui vi sono delle insofferenze sociali che si inscrivono, nel caso di un paese come il Belgio, in un contesto di frammentazione politica. Esso è diviso tra la comunità fiamminga e francofona, quest’ultima particolarmente interessata dai flussi migratori sin dagli anni Sessanta.
Secondo il Ministro degli Interni Jan Jambon, infatti, proprio quegli anni fecero da sfondo alle grandi migrazioni dalla Turchia, Marocco, Algeria e Tunisia. La comunità marocchina, infatti, è la seconda dopo la Turchia ed è quella maggiormente concentrata nella parte industriale delle città belghe appartenenti alla comunità francofona. Questo tipo di organizzazione politica particolarmente frammentata è visibile anche all’interno delle città: solo Bruxelles, infatti, conta 19 municipalità con altrettanti sindaci e 6 dipartimenti di polizia. Ciò spiega le difficoltà di coordinamento nelle operazioni e nello scambio di informazioni. Inoltre, il governo belga ha l’autorità di ritirare passaporti e carte di credito dei sospettati terroristi solo se nati all’estero e non può adottare la stessa pratica con i propri cittadini.
Il problema, quindi, non riguarda le frontiere dei nostri paesi, ma quello che avviene ai confini delle nostre città, in quelle periferie in cui le politiche di integrazione sono completamente assenti e lasciano il posto alla radicalizzazione, invece così presente e sempre più in crescita. Lo Stato come entità fallisce ancora una volta e quello che dovrebbe rappresentare il suo sostituto, l’Unione Europea, si presenta vincente solo dal punto di vista ideale.
Sabrina Carnemolla