Se una cosa è certa, sui Queen, è che non hanno bisogno di pubblicità per essere riportati alle luci della ribalta. Il loro successo tra i fan di ogni età e di almeno tre continenti, a ventitré anni dalla morte dell’indimenticabile Freddie Mercury, è vivo e indiscutibile.

L’usQueenForevercita di Queen forever, prevista per l’11 novembre in Italia, racconta perciò solo la voglia del chitarrista Brian May e del batterista Roger Taylor di approfondire alcuni aspetti del caso Queen, rivelandone forse le pieghe meno note. Significativo in questo senso è il mancato inserto, nelle trentasei tracce dell’edizione Deluxe, delle grandi hit e i successi radiofonici del gruppo: spulciarne la tracklist offrirà all’ascoltatore lo spunto per ripercorrere, aldilà delle ideologie da tifoseria, la vita e l’arte di un gruppo da sempre ritenuto, per varie ragioni, un caso anomalo nella storia del rock.

La rock ballad è protagonista della raccolta e consente di tracciarne l’itinerario, dalla promettente Nevermore (1974), ad una Lily of the valley (1974) che si rivelerà uno standard per il genere. In Love of my Life (A night at the opera, 1975), già osserviamo la compiutezza del queen-style: le gestualità strumentali classiche si fondono con la voce morbida e polifunzionale di Freddie, in un clima musicale arricchito dalla presenza di un’arpa e dai plettri che si atteggiano ad archi di un’orchestra.

La toccante quanto ricca nella sperimentazione sonora You take my breath away faceva, nell’album A day at the races (1976), da degno contraltare alla immortale Somebody to love, uno dei risultati più propriamente Queen nella rivisitazione dei ritmi rock and roll in un eclettico amalgama, dall’architettura priva di cedimenti.

Al periodo che va da Hot Space (1982) alla leggendaria esibizione al Live Aid (1985), immediatamente successivo alla conversione pop ed elettronica, si ascrive una fase di tensione per le impopolarità dovute alle scelte di stile, da una parte, e all’immagine di outcast del gruppo, tensione risolta solo da un parziale ritorno al passato.

Freddie Mercury
Freddie Mercury davanti al pubblico del Live Aid (vecchio Wembley Stadium, Londra, 1985)

Alla rinascita risalgono It’s a hard life (The works, 1984), la cui citazione operistica in calce ne annuncia il recuperato atteggiamento eclettico degli anni ’70, ma soprattutto i tre inediti, che saranno pubblicati in Queen forever, raccolti per l’occasione tra le registrazioni lasciate nel cassetto. Di questi, There must be more to life than this si fregia di un’insospettata collaborazione con Michael Jackson. Noto fino ad oggi come traccia dell’album di debutto di un Freddie Mercury solista, Mr. bad guy (1985), che non conobbe grande successo di critica, era in realtà già stato in cantiere durante le registrazioni per Hot space, ma mai portato a compimento. Risale a quegli anni il take della voce di Jacko, avvenuto a Los Angeles su interessamento dello stesso Freddie. Il brano, che non è stato mai completato in questa versione, ha visto la luce sotto il mixaggio di William Orbit. «Sentire la voce di Michael Jackson è stata un’emozione. Così vivida, così straordinaria, così toccante», confessa il discografico, «e lavorare al mix di Freddie sul mio desk non ha fatto che aumentare la mia ammirazione per il suo talento».

Riscoperta in una nuova versione power ballad è invece Love kills, composta nel 1984 da Freddie Mercury e da Giorgio Moroder per il progetto di dare una soundtrack al capolavoro muto Metropolis di Fritz Lang. La versione dance originale è stata qui rieditata dopo che, nel tour Queen + Adam Lambert (iniziato nel 2012), la sua proposizione aveva rappresentato un momento molto intenso.

La vera grande rivelazione dell’album è però Let me in your heart again, scritto da Brian May originariamente per The works (1984) ma mai pubblicata se non nella collaborazione del chitarrista con Anita Dobson (Talking of love, 1987). Rinnovata nel sound strumentale da nuove registrazioni di Taylor e May, la power ballad, di una freschezza che ci ricorda lo stile degli anni di Radio Ga Ga, permette di riscoprire, dopo trent’anni, la voce sempreverde di Freddie.

Queen - Innuendo
Innuendo (1991), l’ultimo album uscito prima della morte di Freddie Mercury

Una menzione a sé meritano i brani della maturità, in cui scopriamo finalmente il volto umano del complesso castello dandy delle regine. Don’t try so hard (Innuendo, 1991), pur in un album che intende riproporre il clima della consacrazione del ’75, senza però rinunciare alle conquiste sonore degli anni dance, è una riflessione sulle difficoltà della vita. Si avvicina il complicarsi della malattia, sconosciuta alle folle, di Freddie. In Bijou la musica si polverizza quasi tra le arcate melodiche di May, che si intrecciano con il canto come in un ricordo, viaggiando in un tessuto armonico impalpabile e ricco di bagliori.

Per a Winter’s Tale, singolo postumo in un album postumo (Made in Heaven, 1995), si racconta che Freddie dovesse cantare seduto, con le forze che l’abbandonavano. Sorprende allora il maturo e appassionato dominio del gesto vocale – quasi un cantante blues – che il cantante esercita nella descrizione del paesaggio di Montreux, sua seconda patria negli ultimi anni di vita. Nella sua essenzialità, il canto di un quarantacinquenne Farrokh Bulsara rivela un genuino amore per le cose belle e traccia il profilo di una figura molto più complessa del noto stereotipo costruito ad arte, che forse questa raccolta contribuirà in parte a rivedere sotto una luce più vera. Occorre scendere alla sostanza di una vicenda musicale che, non entrando direttamente nelle sorti del XX secolo, tuttavia lo conosce, lo commenta e lo dissacra.

Antonio Somma

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