Trecento miliardi di euro sonanti: tale è la cifra promessa dal nuovo presidente della Commissione Europea Juncker, per dar vita ad un piano di investimenti in grado di rilanciare la crescita nell’Unione. Ma di concreto al momento c’è davvero poco.
La famosa cifra è stata al centro di aspri dibattiti fin dall’insediamento della nuova Commissione, tra i falchi del rigore poco propensi a nuovi esborsi e le colombe dello sviluppo ostinatamente convinte della necessità di dare respiro all’asfittica economia europea. Una condizione su cui, alla fine, tutti sembrano aver converso, se è vero che il nostro premier Matteo Renzi, parlando in Austria, ha decorato il piano messo in campo da Juncker come una sorta di “New Deal” in versione europea, rievocando il presidente Roosevelt che, tuttavia, ben altre circostanze e ben altri presupposti si trovò di fronte.
La realtà scarna e desolante è che dei celebri 300 miliardi la Commissione è intenzionata a stanziarne soltanto 26, provenienti da 21 miliardi di fondi “riciclati” e per la miseria di 5 miliardi da nuovi finanziamenti. Il resto? Un mistero. E non nell’accezione televisiva del termine, se è vero che gli analisti di Bruxelles hanno ipotizzato – ottimisticamente – di poter conseguire un effetto-leva pari a 15 volte il capitale iniziato, giungendo così ad una disponibilità virtuale di 315 miliardi. Insomma, ci si aspetta che a colmare il restante divario siano investimenti privati, spontanei e mecenati.
Uno sforzo oltremodo esiguo, quello di Juncker, ben lontano dai rivoluzionari sistemi del dopoguerra americano e decisamente troppo aleatorio per consentire all’Europa di fondare la propria ripresa su semplici stime analitiche.
Il rischio è che il piano Juncker si tramuti in un grande bluff, non solo inadatto a stimolare crescita e investimenti, ma neppure in grado di utilizzare quei pochi fondi a disposizione in modo oculato. A Bruxelles, del resto, sono già pervenuti oltre 1800 progetti, per un totale di 1100 miliardi circa, la maggior parte provenienti proprio dalla nostra Italia.
Una sproporzione immane, se paragonata ai 26 miliardi di partenza, ma anche ai 315 miliardi di ipotetica copertura complessiva. In compenso, il denaro stanziato, che convergerà in un apposito fondo detto EFSI (European Fund for Strategic Investment, nome tanto suggestivo quanto ridondante), verrà svicolato dalle logiche del 3% imposte dal Patto di Stabilità, in una sorta di mini golden rule che dovrebbe incoraggiare gli Stati membri a prendervi parte.
Non si può dire che alla nuova Commissione di Juncker manchi l’ottimismo. Forse un modo per scrollarsi di dosso l’imbarazzo del LuxLeaks. Il timore, tuttavia, è che l’imbarazzo degeneri in qualcosa di peggio: in quel caso, non ci saranno marchingegni finanziari che tengano su le fondamenta scricchiolanti del Vecchio Continente.
Emanuele Tanzilli