“Il lager distava all’incirca tre chilometri dalla baracca dove ci recavamo a lavorare e durante il cammino si attraversava un ponte che passava sulla ferrovia del paesino di Auschwitz. Per noi era una sofferenza indicibile, perché quel mondo voleva dire il mondo di fuori, tutto ciò che a noi era precluso. Era proprio un sentirsi staccate dal mondo, e tuttavia vederlo in lontananza. Vedevamo passare i civili che viaggiavano a bordo delle carrozze. Potevamo distinguerne le fisionomie. Noi vedevamo loro, ma non credo che loro vedessero noi.”

Questa è una testimonianza tratta dall’intervista a Giuliana Tedeschi nel libro “Come una rana d’inverno”, titolo che rammenta la cruenta poesia di iniziazione al libro “Se questo è un uomo” di Primo Levi. In ricorrenza della commemorazione della Shoah non esisterebbe modo migliore di consacrare importanza ai fatti accaduti, attraverso il ricordo di qualche sopravvissuto. D’altronde, la filosofia sarebbe mera contemplazione delle parole se non considerasse gli eventi storici come testimonianze di uomini e donne.

Il termine “memoria” risiede prevalentemente nelle filosofie basate sull’empirismo, e si concilia con ciò che l’uomo traccia nel mondo attraverso errori e conquiste. Impostare una lucida analisi sociologica, circa ciò che accadde durante la seconda guerra mondiale, sarebbe indecente per un articolo da poco più di neanche mille parole; il pluralismo derivante non riuscirebbe a scorgere tutti ragionamenti di causa-effetto da cui scaturirono i noti campi di sterminio: luoghi di alienazione umanitaria attraverso la produttività manifatturiera, come scritto nel testo “La violenza nazista” di Enzo Traverso.

E quindi anziché perderci in sproloqui di carattere saggistico, sfioriamo una memoria filosofica concepita in senso spiritualistico, che smuove l’attività della coscienza. E che purtroppo, s’è sostituita ad ampi e rigidi fondali fermi nella concezione di coscienza opportunistica, di cui ci si riveste pochi giorni all’anno in massa, per determinati scandali di elevata assurdità: come uccisioni barbare di innumerevoli vittime e come negoziazione di una compassione verso poveri superstiti delle tragedie.

Onorando la giornata della memoria, ci si imbatte nel compromesso insulso di scrollarsi dalla pelle tutti i restanti 364 giorni dell’anno; e con essi, scompaiono dai nostri televisori le torture psichiche di coloro i quali per disavventura fatale, hanno scampato la morte morendo ogni giorno. Morendo nei paradossali inceppi della vita sul terreno di cemento dei lager, morendo in un sonno troppo stanco di risvegliarsi nell’incubo della realtà; morendone di vita col trafitto interno di sopravvivere a deportazioni che hanno vaporizzato vite impresse a numeri, le quali contavano gli istanti per distrarsi dalla fila delle docce a fuoco.

Esiste una memoria che prospera speranza sulla “conservazione della sensazione”, ma gli uomini non tentano di scorgerla, terrorizzati dall’affanno del dolore misto a ingenua indifferenza come arma protettiva, per difendere la propria stabile teoria di prendere la vita come viene. Dall’altro lato del sipario, persone -chiamate tali convenzionalmente, costrette al macigno del dimenticatoio con l’ibernazione interiore di esser stati disumanizzati da un relativismo generato da altri simili, con strumenti di violenza e illogiche politiche. Lo scontro tra i poteri forti del razzismo e le debolezze innocue, costretti passivamente ad esser ricordati come vittime dopo aver provato la vita di cavie: intrappolati in un arco temporale che li ha prima generati come forza lavoro e utilizzati come sapone dell’Europa, per poi vederli scomparire nel rammarico di non aver saputo esprimere a parole il processo di disumanizzazione collettiva.

“Avevamo deciso di trovarci ogni domenica sera in un angolo del Lager; ma abbiamo subito smesso, perché era troppo triste contarci, e trovarci ogni volta più pochi, e più deformi, e più squallidi. Ed era così faticoso fare quei pochi passi: e poi, a ritrovarsi, accadeva di ricordare e di pensare, ed era meglio non farlo.”

Scrivere dopo la “sensazione di memoria” di Primo Levi mette i brividi. Per questo si dovrebbe semplicemente ripercorrere ricordi di testimoni, con quel senso di empatia scontata a misera tristezza, insieme alla certezza di sentirsi immuni da una comprensione che genererebbe l’annullamento soggettivo di chi legge e di chi scrive.

Citazioni tratte da:

1. Come una rana d’inverno, Daniela Padoan

2. Se questo è un uomo, Primo Levi

Alessandra Mincone

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